E’ un botta e risposta tra toghe autorevoli quello degli ultimi giorni tra Gian Carlo Caselli e Henry John Woodkock. Tema di “scontro” è il 41bis, la misura di carcere duro sulla quale magistrati, avvocati e giornalisti si scontrano dai tempi della sua istituzione. Qualche giorno fa, sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, Woodcock ha scritto un articolo nel quale osservava alcune criticità del sistema 41bis per come è stato modellato negli anni e per come ora si presenta. Diversi sono i punti deboli del 41bis secondo il pm della procura di Napoli, a partire dal numero di soggetti ad esso sottoposti. “Il carattere comunque eccezionale attribuito dalla legge alle restrizioni dell’ordinario trattamento penitenziario sembra poco adattarsi al fatto che i soggetti attualmente sottoposti al 41-bis siano tanti, oltre 600, e che le proroghe sono di fatto automatiche e senza limitazioni temporali“, scrive Woodcock. “Circostanze, queste, che lo fanno piuttosto assomigliare a un regime “ordinario” per detenuti “speciali” o, peggio, a una sorta di pena supplementare che viene peraltro applicata da un’autorità amministrativa, in relazioni a fattispecie evanescenti e astratte come il ricorso di “gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica”. Il magistrato solleva anche la questione dei collaboratori di giustizia: “Oltre 1.000, sottoposti a speciale regime di protezione“, scrive Woodcock definendoli una “armata“. “Anche qui – spega – il numero elevatissimo si adatta poco a misure concepite come “eccezionali”, facendo sorgere il sospetto che, in certi ambienti di criminalità organizzata, sia diventata prassi “ordinaria” quella di commettere reati gravissimi e poi, una volta beccati, “pentirsi” e godere dei sontuosi benefici legati alla collaborazione. Benefici che possono fruttare, nei fatti, una condanna a una pena complessiva inferiore ai venti anni di carcere (oltre ad arresti domiciliari e semilibertà), a fronte anche di una decina di omicidi da ergastolo“. A queste osservazioni che il magistrato sapeva essere papabile campo di dibattito magari con qualcuno degli addetti ai lavori, come invocato da Marco Travaglio a fine articolo, ecco che questa mattina arriva, sempre sulle colonne de Il Fatto Quotidiano, la puntuale risposta di Gian Carlo Caselli. L’ex magistrato (con alle spalle 7 anni di carriera alla guida della procura di Palermo) dissente, seppur con rispetto, in maniera assoluta con quanto sostenuto da Henry John Woodcock. “Le critiche al 41 bis sono elencate da Woodcock in modo dettagliato e spietato, con autentiche bordate che sparano concetti come (dis)umanità, sadismo, tortura, annientamento del nemico, rendere la vita impossibile, incostituzionalità e via salmodiando”, afferma. “Poi, illustrando nel merito i “difetti” del 41 bis, con accenti a volte quasi consenzienti, Woodcock mescola verità a luoghi comuni che nascono ai tempi del terrorismo (quando il 41 bis si chiamava art. 90) ed esplodono con la mafia, ma che non diventano più veri per il solo fatto di essere stra-ripetuti“. Caselli elenca dunque sei punti in cui spiega in maniera chiara e approfondita le ragioni del suo dissentire. Ne riportiamo solo alcuni.
Punto primo: “Il carcere “duro” serve per far confessare e difatti punisce chi non confessa; – il regime differenziato viene applicato a chi è accusato di delitti di mafia; pentendosi, si dimostra fattivamente di volerla smettere con questa “cultura” di violenza e di morte; altrimenti si manifesta in sostanza la scelta di fare ancora parte del sodalizio criminale; pertanto il 41 bis non è strutturato per punire chi non confessa, ma più semplicemente per modulare la detenzione nei confronti di chi è stato e intende rimanere mafioso. Ciò in base ad una realtà che può cessare solo col pentimento/confessione o con la morte: la assoluta fedeltà del singolo al collettivo criminale, nel quale egli si immedesima interiorizzandolo come l’unico formato da individui degni di essere riconosciuti “uomini” (non a caso autodefinitisi “d’onore”), mentre tutti gli altri sono oggetti da assoggettare. In breve, il 41 bis “punisce” la maggior pericolosità dei mafiosi irriducibili“.
Punto secondo: “Pentimento non significa travaglio morale, significa solo confessione; – lasciamo stare il travaglio morale, che è un fatto interiore, del tutto estraneo alla sfera giudiziaria; osserviamo invece che per riconoscere una revisione critica del proprio passato e la decisione di cambiare vita, le regole del processo esigono segni concreti “esteriori”; la confessione, sia dei propri delitti sia di quanto si sa dell’organizzazione e delle sue coperture, è in pratica la principale modalità di tale riconoscimento; per contro – lo stabilisce la Consulta – “una semplice dichiarazione di dissociazione” non basta, in quanto atteggiamento ambiguo e facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan“.
Punto quarto: “I detenuti al 41 bis sono un “battaglione”, oltre 600, e tale numero poco si adatta al carattere eccezionale dell’istituto;- ma questo numero è l’effetto inesorabile di una causa precisa, l’estensione in Italia (e ben oltre i nostri confini) delle varie mafie, che non sono un’emergenza ma un fatto strutturale, per cui il 41 bis di eccezionale ha purtroppo ben poco. Quinto: i benefici legati alla collaborazione sono “sontuosi” e addirittura potrebbero avere un effetto “criminogeno”; – ora, a parte che i benefici sono quelli previsti dalla legge (semmai può esserci qualche giudice di manica più larga), ai tanti pentiti che ho conosciuto da vicino va riconosciuto di aver operato per impedire nuovi crimini, cercando di neutralizzare potenti organizzazioni criminali; a rischio di subire rappresaglie bestiali essi stessi ed i propri familiari: basta ricordare – per tutti gli altri, e sono un esercito – Patrizio Peci (Br) e il fratello Roberto, insieme a Santino Di Matteo (Cosa nostra) e al figlio tredicenne Giuseppe“.
Seppur con idee diverse, entrambi i magistrati concordano sulla necessità e sull’utilità di un sistema come quello del 41bis in un Paese come il nostro dove la mafia rappresenta un “sistema consolidato di potere e non un’emergenza eccezionale“, scrive Caselli. Ecco perché bisogna pesare con cura le parole quando si affronta il tema, per il quale spesso si è oggetto di pesanti vessazioni politiche e mediatiche da “benpensanti“, come denuncia il magistrato oggi in pensione. “I luoghi comuni – si legge nell’articolo a firma di Gian Carlo Caselli – fanno il gioco dei garantisti “à la carte” e dei mafiosi“.
Fonte: antimafiaduemila.com