I collaboratori raccontano dei presunti favori delle «guardie». «Chiudevano un occhio, non potevano permettersi di spifferare nulla».
COSENZA Nuova udienza del processo in corso al Tribunale di Cosenza sui presunti «agenti di polizia penitenziaria infedeli» in servizio al carcere bruzio, che vede imputati Luigi Frassanito e Giovanni Porco. Nel corso della scorsa udienza, il pentito Daniele Lamanna aveva raccontato con dovizia di particolari come la criminalità cosentina, avesse avuto tramite i due agenti, la possibilità di ottenere privilegi all’interno delle celle di sicurezza e «qualsiasi cosa» vietata dall’ordinamento giudiziario. Dinanzi al giudice Carmen Ciarcia, questa mattina, il pm e le difese sollecitano il racconto di altri due collaboratori di giustizia, si tratta di Mattia Pulicanò e Francesco Noblea. Pulicanò, difeso dall’avvocato Civita Di Russo (sostituita in aula dalla collega D’Amico) si è pentito nel 2014. Affiliato alla cosca Lanzino-Ruà-Patitucci è stato “battezzato” con il classico rito di affiliazione «nel marzo del 2008 da Francesco Patitucci, assumendo il ruolo di picciotto». Nella consorteria criminale, l’attuale collaboratore, si occupava del traffico di droga, soprattutto cocaina.
Pizzini, mp3 e cambi di cella
Nel carcere di Cosenza, Pulicanò entra nel settembre del 2009 e rimane (salvo qualche giorno trascorso fuori) fino al luglio del 2011. Nel penitenziario bruzio conosce le guardie Giovanni Porco, difeso dall’avvocato Cristian Cristiano, e Luigi Frassaniti, difeso dall’avvocato Filippo Cinnante, che a quanto sostenuto «facilitavano l’ingresso in cella di qualsiasi cosa: mp3, profumi, orologi, alcolici e cibi vietati». Ma non solo. Come più volte ribadito da Lamanna nel corso del suo interrogatorio, anche Pulicanò sottolinea il contributo delle “guardie” nello scambio di informazioni, tra i membri della consorteria criminale dall’interno all’esterno del carcere, tramite pizzini e “mbasciate”. «Luigi (il pentito non ricorda il cognome) è venuto da me su sollecitazione di un affiliato alla cosca che dall’esterno del carcere chiedeva una lista legata al traffico di droga. Ho inviato il messaggio di risposta – dice Pulicanò – grazie a Luigi che era a conoscenza del contenuto del pizzino». Per quanto riguarda l’ingresso di alimenti, bevande ed oggetti vietati, Pulicanò ricorda come fossero sempre le due guardie imputate nel processo a consegnare direttamente a lui gli oggetti e lo stesso collaboratore di giustizia di adoperava a distribuirlo a chi di dovere. Sia il pm che il giudice Ciarcia chiedono a Pulicanò di fornire maggiori informazioni sul modus operandi. Il collaboratore parla di beni fatti arrivare a destinazione grazie alla complicità di alcuni «addetti alle pulizie e alla cucina» che smistavano quanto richiesto eludendo i controlli. L’accusa, in aula, si rivolge ancora a Pulicanò chiedendo quali fossero le ricompense per i presunti favori elargiti dalle guardie. «Quando ho ricevuto un permesso premio – risponde il pentito – ho consegnato 500 euro a Giovanni Porco, prendendo i soldi non dalla bacinella ma dagli incassi della vendita di una partita di droga». Sulla posizione di Porco, la parola passa alla difesa sostenuta dall’avvocato Cristian Cristiano. Il legale si rivolge al collaboratore chiedendo se sapesse come le guardie riuscissero ad eludere i controlli per far entrare oggetti, bevande e cibi vietati. Secca la risposta di Pulicanò: «Non saprei». L’attenzione si sposta sui cambi di cella che a dir del pentito avvenivano per scelta «degli uomini delle cosche presenti nel carcere previa domanda all’ufficio penitenziario». «Ero referente del gruppo Lanzino-Ruà-Patitucci – racconta Pulicanò – e dialogavo con i referenti delle altre cosche per concordare gli spostamenti. In questo caso le guardie non avevano nessun ruolo». L’ultimo passaggio, il pentito lo riserva ad un banchetto in un noto ristorante dell’hinterland bruzio organizzato da Porcaro che avrebbe «ottenuto un trattamento di favore, o forse non avrebbe pagato nulla, per quella festa» grazie all’intervento di Patitucci con soggetti legati alla struttura. Sul perché i responsabili della struttura avessero concesso il favore a Patitucci, il collaboratore non ha dubbi: «perché pagavano la tangente». Sarà lo stesso Porco – secondo Pulicanò – a riferirgli dell’avvenuto “sconto” per il banchetto e dunque a dargli positivo riscontro sulla ‘mbasciata di Patitucci ai responsabili della struttura.
«Le guardie chiudevano un occhio»
Da un collaboratore ad un altro, il collegamento video di Pulicanò viene interrotto e dopo una breve pausa, il monitor inquadra (di spalle) Francesco Noblea. La sua collaborazione è recente, nel 2017 sceglie di raccontare ai magistrati i segreti di cui è a conoscenza in riferimento ai business della sua consorteria, la famiglia Abruzzese. Come Pulicanò, anche Noblea si occupava prevalentemente dell’attività di spaccio. La sua prima detenzione nel carcere di Cosenza è datata 2012 (rimane sette mesi), dove poi farà ritorno nel 2015 fino al 2017. In questo periodo – racconta in aula – «ero detenuto nella sezione comune, lontano da quella dedicata all’alta sicurezza. Su cosa accadesse lì non posso riferire con certezza, ma solo per sentito dire». Il pm si rivolge a Noblea, rappresentato in aula dal suo difensore di fiducia l’avvocato Michele Gigliotti, chiedendo lumi sulla situazione nel penitenziario bruzio. «Era tutto normale» ribadisce più volte, ma è sulla parola «normale» che l’accusa si concentra chiedendo all’interrogato di essere più esplicito. «Nel mio piano non entrava droga, alcol e nessuna altra cosa proibita», sostiene sicuro il collaboratore. Il pm allora cita un verbale del 2018 in cui Noblea riferiva dell’esistenza di «detenuti dotati di un elevato potere decisionale e in grado di decidere tutto, anche sugli spostamenti dei detenuti da una cella ad un’altra». Noblea racconta di aver goduto di un unico “privilegio” nel corso della sua detenzione: la possibilità di «comunicare dalla finestra con la ex compagna». Tutto avveniva con la complicità delle guardie, «si giravano dall’altra parte, dovevano chiudere un occhio perché non potevano permettersi di spifferare quello che facevano i detenuti altrimenti un giorno qualcuno avrebbe potuto bussare alla loro porta». Il passaggio è chiaro al pm che riprende in mano il verbale reso da Noblea nel 2018 e chiede al pentito se ricorda alcuni particolari della sua confessione in merito all’ingresso in carcere di «taglierini e coltelli». «C’era chi portava i taglierini – risponde Noblea – e li nascondevano sotto le porte dei bagni o sotto il congelatore». I due collaboratori forniscono ulteriori elementi utili ad accusa e difesa, l’attesa è per la prossima udienza – prevista il 20 luglio – quando a testimoniare sarà un altro pentito: Adolfo Foggetti.
Fonte: corrieredellacalabria.it