di LEO BENEDUCI
Il sole d’agosto brucia implacabile sulle mura grigie del carcere di Rebibbia, ma potrebbero essere quelle di Secondigliano, Torino, Sulmona, Sollicciano, Perugia, Prato, in questo momento il panorama non cambia. Un tempo, in questi giorni, i giornali italiani si riempivano di storie di cani abbandonati sulle autostrade. Oggi parlano di carceri sovraffollate, di detenuti che soffrono il caldo. Ma c’è un’altra storia di abbandono che nessuno racconta, un dramma che si consuma 365 giorni all’anno, non solo d’estate. Varco i cancelli del penitenziario e l’aria pesante, carica di tensione, mi investe. Non è solo l’atmosfera creata dai detenuti. C’è altro. Lo vedo negli occhi dei poliziotti, lo sento nel modo in cui camminano, parlano, respirano. Questi donne e uomini in divisa sono veri prigionieri qui, ostaggi di un sistema amministrativo e giudiziario che li ha dimenticati. Un agente fresco di corso e distaccato a Roma per ì gravi motivi di salute della madre, mi guarda. Nei suoi occhi leggo ancora di ideali, ma anche di grandi paure. Paura di non farcela, voglia di congedarsi prima ancora di iniziare. “Sono qui, ma rispetto a quello che immaginavo quando ho scelto di arruolarmi c’è un abisso”, dice, la sua voce trema, incerta. Lo scarto tra scuola e carcere è un baratro che minaccia di inghiottirlo. Accanto a lui, un collega con dieci anni di servizio sorride amaramente: “Aspetta e vedrai quanti capelli bianchi che avrai tra un anno ed i lividi delle aggressioni”. Ogni giorno, questi agenti affrontano una missione impossibile. Devono mantenere l’ordine in un sistema al collasso, con risorse insufficienti e un sovraffollamento cronico. Ma la vera sfida è sopravvivere all’indifferenza di un’amministrazione che sembra averli abbandonati. I direttori ed i vertici del dipartimento d’estate vanno in vacanza che tanto loro, i capi, quello che gli agenti devono fare lo hanno messo per iscritto e poi succeda quello che deve succedere, il peso delle emergenze su chi resta. “Quando un detenuto fa una rivolta, raramente viene punito”, mi spiega un veterano, gli occhi stanchi di chi ha visto troppo. “Ma se noi alziamo la voce, anche solo per difenderci, veniamo sanzionati, sospesi, indagati, perseguitati.” I media parlano ancora oggi di Santa Maria Capua Vetere, di San Gimignano. Scandali, accuse di tortura. Ma chi parla delle torture quotidiane che questi agenti subiscono? Non solo violenza fisica, anche se c’è anche quella; parlo di una violenza più subdola: l’essere costantemente sotto accusa, l’essere considerati colpevoli fino a prova contraria, l’avere paura di fare il proprio dovere e di doversi poi giustificare, l’avere paura persino di muoversi: meglio diventare un automa senz’anima ed eseguire solo gli ordini se pure ce ne sono. Un assistente mi mostra i segni sul polso, residuo di un’aggressione recente. “Sai cosa è successo al detenuto che mi ha fatto questo? Nulla. Sai cosa sarebbe successo a me se avessi reagito? Sospensione immediata e metà stipendio per anni, forse la fine della mia carriera… e della mia famiglia“. L’indulgenza verso i detenuti e il rigore con gli agenti creano un paradosso kafkiano. Mentre il famigerato articolo 14-bis, una sorta di daspo carcerario per i detenuti più violenti, rimane inapplicato, gli agenti vivono nel terrore costante di sanzioni per il minimo errore. Esco dal carcere con un peso sul cuore. Ho visto donne e uomini che hanno giurato di servire lo Stato, ridotti a ombre di se stessi. Sentinelle della legalità, dimenticate da quello stesso sistema che dovrebbero proteggere secondo la legge istitutiva del Corpo di Polizia penitenziaria e il regolamento carcerario del 2000. Questa è la vera emergenza penitenziaria di cui nessuno parla. Non ci sono una sola versione della storia ed un solo lato delle sbarre. C’è un intero capitolo che viene sistematicamente ignorato, censurato, dimenticato. In un Paese che si definisce civile, in una Repubblica fondata sul lavoro, come possiamo permettere che coloro che incarnano la legge vengano abbandonati in questo modo? Mentre il dibattito pubblico si concentra sui diritti dei detenuti – una battaglia giusta e necessaria – chi difende i diritti di chi quei detenuti deve custodire e vigilare tutelando l’ordine e la sicurezza pubblica? Le mura del carcere non dividono solo i colpevoli dagli innocenti. Dividono anche coloro che la società ricorda da coloro che ha scelto di dimenticare. E in questo oblio collettivo, stiamo perdendo non solo degli individui, ma l’essenza stessa della giustizia che pretendiamo di servire. Il mestiere di sopravvivere in carcere non dovrebbe essere quello del poliziotto penitenziario, eppure, in Italia, questa è la triste realtà quotidiana.
di Leo Beneduci – Segretario Generale OSAPP – Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria
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