Dalle celle i boss mandano ordini di morte e gestiscono le famiglie
In questi trent’anni, lentamente, l’impianto normativo voluto da Giovanni Falcone è stato tradito, ingannato e quotidianamente disatteso proprio da quelle istituzioni che stanno sostanzialmente, depotenziando la normativa antimafia. Questo ha portato ad un effetto non a tutti visibile ma non meno importante: le mafie hanno preso il controllo degli istituti penitenziari. Dalle celle emettono ordini di morte, di estorsione, gestiscono la vita del clan e degli altri detenuti. È questa la tragica realtà descritta dal consigliere togato del Csm Sebastiano Ardita nel suo nuovo libro ‘Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere’ .
Ardita è un magistrato che la realtà del carcere la conosce bene:
per nove anni è stato responsabile dell’applicazione del 41 bis, ricoprendo il vertice del Dap, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Per inciso, sono davvero tanti i motivi per cui si è arrivati a questa situazione, come sono tanti coloro che l’hanno voluta: magistrati, politici, alti esponenti delle istituzioni, con il beneplacito di buona parte di un’informazione a media o alta vocazione garantista.
Costoro hanno sbandierato per anni la questione del sovraffollamento delle carceri, usato come clava l’articolo 27 della Costituzione che sancisce il principio della rieducazione della pena, e soprattutto raccontato all’infinito che la mafia non è più un’emergenza, ma una storia del passato.
Come ha scritto Ardita, il Parlamento sembra che abbia deciso di affidarsi ad una sorta di “beata ingenuità” nel decidere il destino della legislazione antimafia, figlia del sangue versato nelle stragi del ’92-’93. E dire che anche oggi l’Italia subisce gli effetti di quelle stragi e dei segreti ancora non rivelati.
Ampio spazio è stato dedicato alle sommosse del marzo 2020 in piena emergenza covid-19 e per quelle accadute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Pensare di costruire un modello di diritti – come il sistema delle celle aperte – a discapito della sicurezza e dell’integrità fisica degli agenti e dei detenuti più deboli è una colpa grave e imperdonabile i cui effetti sono destinati a prodursi negli anni e saranno pagati da tutti, da detenuti e da agenti. E anche quando il fuoco delle rivolte sarà ricoperto dalla cenere dell’apparente ritorno alla normalità, tutto questo durerà: fino a quando non si troverà un nuovo equilibrio che assicuri a tutti i detenuti vera dignità e non garantisca ai boss spazi di illegalità per sfuggire al controllo dello Stato.
Non è un ritorno al monopolio della forza statale il pestaggio in carcere, ma rappresenta, al contrario, la perdita di ogni forza da parte dello Stato”.
In conclusione, queste rivolte e questi disordini sono figli di un punto di caduta di anni di disattenzione rispetto a questa realtà. E i numeri lo dimostrano: le aggressioni al personale della penitenziaria erano 294 nel 2010, crescono fino a 805 nel 2019, le minacce a pubblico ufficiale passano da 270 a 3mila, il rinvenimento di coltelli da 37 a 200, le infrazioni disciplinari passano da 579 nel 2010 a venti volte tanto.
Tutti dati, questi, che a detta del magistrato fotografano un clima interno alle carceri che è fuori controllo. Una realtà nella quale oltre al fattore del disagio, in passato, specie negli anni ’70, aveva influito il fattore eversivo.
Oggi uno dei fattori destabilizzanti è senza dubbio quello mafioso, spalleggiato da una politica sempre più latitante.
Collaborazioni impedite
Il dato è oggettivo: “è quasi impossibile che un capo mafia che non ha collaborato possa cambiare vita” ha scritto Ardita. E per rendere la vita difficile all’istituto della collaborazione sono state approvati alcuni provvedimenti passati in sordina.
Uno fra tutti la circolare sulla cosiddetta ‘sorveglianza dinamica’, introdotta poco dopo che Ardita era uscito dal Dap. Il risultato era stato un totale fallimento: “la polizia penitenziaria sarebbe uscita dalle sezioni, che rimanevano completamente aperte, ingovernabili, sotto il controllo esclusivo dei detenuti, ma nell’assenza di controllo da parte dello Stato”.
Un vuoto che le gerarchie criminali, o qualcun altro, avrebbero presto riempito.
Ma a questo punto la domanda sorge spontanea: se un mafioso arrestato dovesse “maturare l’idea di collaborare con la giustizia, potrà mai sottrarsi al controllo e repressione degli altri, che saranno in grado di sorvegliarlo, controllarlo, e di recarsi presso la sua cella in qualsiasi momento?”.
Potrà mai avere “il tempo di incontrare i magistrati senza essere scoperto?”.
La risposta scontata è ‘no’. Si può supporre che chi adottato questa disposizione aveva ignorato del tutto il travaglio di chi vive gli effetti di collaborare con la giustizia.
La difesa del cittadino
“Da tempo – ha scritto Ardita – scrivendo di mafia e di vite sbagliate, di killer e di ragazzi di quartiere, mi pongo il problema di andare alle radici del male. Vedo una illegalità che si manifesta come espressione di esistenze estreme, dove ciò che è sbagliato diventa visibile e quasi ostentato. Esistenze che si basano sul dolore di uomini che sembrano nati per far soffrire altri uomini; che vivono nella sofferenza, si illudono di riscattarsi dispensando la morte e finiscono i loro giorni nell’inferno del carcere. Di fronte a tutto questo, quando per anni sei chiamato a svolgere un ruolo repressivo – a indagare, ad arrestare, a condannare –, avverti il bisogno che sia scritta la parola ‘fine’. Alla catena del dolore lo Stato può mettere fine solo partendo dal carcere. Cercando di trasformarlo in qualcosa di diverso, che dia speranza e che ricostruisca. Ed è normale che per riuscirvi quell’esperienza dovrebbe avere un termine, non essere ‘fine pena mai’. Ecco, questo sogno di tutti coloro che coltivano la speranza del cambiamento, che credono che possa esserci un’altra alba dopo la notte più fonda, non può essere biasimato. Anzi, va coltivato. Ma deve sempre tenere conto di un rischio: che altri innocenti possano pagare per un errore di valutazione sul percorso di recupero. Ed era questo il fondamento della normativa che impedisce i benefici a chi fa parte di organizzazioni mafiose. E l’unica arma che lo Stato ha per difendere altri cittadini è di essere certi che chi torna libero non ritornerà sulla strada del male”. Ecco la necessita della collaborazione con la giustizia e del regime del carcere duro e dell’ergastolo ostativo com’era stato ideato da Falcone. Per Ardita il 41 bis “si è trasformato in uno strumento ordinario per contrastare le mafie”. Non è dunque un piano di “misura eccezionale, ma uno strumento normale, stabile di prevenzione dei reati. E dall’altra parte la mafia non è un fenomeno criminale eccezionale ma una modalità dell’agire criminale che opera in modo storicamente documentato da oltre cento anni”.
Ma al di là dell’applicazione della legge e delle strutture, il consigliere togato ha ricordato che il magistrato è chiamato ad applicare le legge, ma come agente del diritto lo può fare “nel modo più umano, non invocando cambi di regole ma provando a cambiare il modo in cui la” esercita.
“Rigore verso la mafia e umanità” sono gli strumenti che più di ogni altri servono per dirigere la vita carceraria, ha scritto Ardita, ma lo Stato ha preferito scegliere di trattare i mafiosi stragisti (i cosiddetti ‘irriducibili’ e detentori delle verità sulle stragi) al pari degli altri, procedendo nello stesso solco delle richieste del ‘papello’ di Riina.
Il libro di Sebastiano Ardita, in conclusione, è diretto a tutti quei cittadini che sono alla ricerca di informazioni libere dal frastuono della ‘grancassa mediatica’, di cui fanno parte certi ‘giornaloni’ al servizio del potere. Un libro da leggere ‘tutto d’un fiato’, adatto soprattutto per i giovani studenti, e che sicuramente non sarà gradito a certi politici che fanno finta di non sapere.
Fonte: antimafiaduemila.com