Sembra quasi una mania quella degli appartenenti alle forze di polizia di candidarsi ad amministrare i piccoli comuni italiani. E a questa moda (che in Basilicata è diventata un caso dopo che a Carbone nelle scorse consultazioni si sono fronteggiate due liste di questo tipo e la maggioranza uscita vincitrice si è dimessa nel giro di 24 ore) non ha fatto eccezione il segretario generale del Sindacato SPP (Sindacato della polizia Penitenziaria), il lucano Aldo Di Giacomo, che alle elezioni comunali del 28 marzo 2010 si era candidato a sindaco di Casalciprano, in provincia di Campobasso, ma a seguito di quella consultazione ha poi rimediato una condanna per truffa aggravata in danno dello Stato.
Sia chiaro subito. La condanna, pronunciata dal Tribunale di Pesaro e poi dalla Corte di Appello di Ancona e, ancora, vagliata dalla Corte d’Appello dell’Aquila a seguito di una richiesta di revisione rigettata e che ha trovato ora l’ennesima conferma in Cassazione, non fa certo riferimento al suo legittimo diritto di candidarsi. I risultati nelle urne, in verità, non furono esaltanti (16 voti su 360 votanti) nonostante di tempo a disposizione per provare a convincere gli elettori ce n’era stato visto il mese di aspettativa retribuita che tocca ai rappresentanti delle forze dell’ordine che concorrono in competizioni elettorali, e la sua lista ne era piena. Ma ciò che mosse la Procura marchigiana a muovere accuse nei suoi confronti fu un permesso sindacale retribuito che Di Giacomo fece avere a un suo collega per il giorno in cui doveva andare a Campobasso a a firmare l’accettazione della candidatura nella sua lista che lui stesso gli aveva proposto, nella consapevolezza che quel tempo sottratto al lavoro non sarebbe servito ad attività sindacale.
Un’accusa riconosciuta come fondata dai vari gradi di giudizio ma che non ha portato a un giudizio di responsabilità nel parallelo procedimento disciplinare, cosa che ha indotto Di Giacomo a chiedere la revisione del processo basandosi su alcune dichiarazioni di colleghi rilasciate nel procedimento disciplinare. Altri appartenenti alla polizia penitenziaria, presenti nel giorno «incriminato» a Campobasso, avevano dichiarato che avevano incontrato Di Giacomo e l’altro collega beneficiario del permesso retribuito in un ristorante del capoluogo molisano e che durante l’incontro si era parlato di problemi legati al lavoro comune, ma aggiungendo «di essere stati chiamati dal Di Giacomo, in assenza di una convocazione formale e senza che fosse redatto un verbale della riunione». Inoltre lo stesso Di Giacomo nell’interrogatorio aveva ammesso che il collega al centro del caso era l’unico dei partecipanti ad avere un permesso sindacale. Dalle intercettazioni telefoniche, poi, risultava che Di Giacomo, che aveva proposto all’interlocutore di entrare nella lista composta anche da altri appartenenti alla polizia Penitenziaria, discuteva con quel collega dei rischi connessi al rilascio di un permesso sindacale per consentire all’interlocutore di recarsi a Campobasso il 22 febbraio 2010 per accettare la candidatura. Elementi, questi, tutti richiamati dai giudici di Appello abruzzesi per affermar che i nuovi elementi non avrebbero potuto scalfire la precedente sentenza in un giudizio di revisione che era stato così negato. E ora la Cassazione ha avvalorato il ragionamento fatto dalla corte territoriale giudicandolo «lineare e logico» col quale avevano concluso che «pur essendo stati affrontati temi attinenti alle condizioni di lavoro degli appartenenti alla polizia penitenziaria, nell’incontro non si fosse svolta attività sindacale, in quanto, per ammissione del beneficiario del permesso, del Di Giacomo e degli altri testimoni, lo stesso aveva ad oggetto l’accettazione delle candidature».
Fonte: lagazzettadelmezzogiorno.it
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