“Chiusura immediata del reparto Sestante del carcere di Torino, diamo 48 ore di tempo”, è quanto chiederà nelle prossime ore alle autorità competenti l’associazione Antigone, che da anni denuncia le condizioni di reclusione nella sezione della casa circondariale Lorusso e Cutugno in cui sono tenuti i detenuti con problemi psichiatrici.
“Sono preoccupata e andrò quanto prima a visitare il reparto Sestante del carcere torinese per vedere di persona quanto denunciato dalla coordinatrice dell’associazione Antigone”, annuncia Gianna Pentenero, neo assessora del Comune di Torino, che tra le sue deleghe ha quella ai Rapporti con il sistema carcerario e che interviene il giorno dopo la lettera che Susanna Marietti ha scritto sul suo blog.
“Di carceri ne ho viste tante in vita mia, in Italia e anche all’estero, ma raramente mi era capitato di assistere a quanto ho avuto modo di vedere nel capoluogo piemontese – attacca la coordinatrice di Antigone – Mi vergogno a pensare che trattiamo le persone in questo modo”.
“Al Sestante – aggiunge – si trovano circa venti celle, dieci su ogni lato del corridoio. In ciascuna è reclusa una singola persona detenuta. La cella è piccola, sporca, quasi completamente vuota. Al centro vi è un letto in metallo scrostato e attaccato al pavimento con i chiodi. Sopra è buttato un materasso fetido, a volte con qualche coperta e a volte no. Qualcuno, ma non tutti, ha un piccolo cuscino di gommapiuma. Non vi è una sedia né un tavolino. Solo un piccolo cilindro che sembra di pietra dove ci si può sedere in posizione scomodissima. L’intera giornata viene trascorsa chiusi là dentro, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Unico altro arredo, un orrendo bagno alla turca posizionato vicino alle sbarre, di fronte agli occhi di chiunque passi per il corridoio”.
Alla luce di quell’intervento, l’assessora ha dichiarato che “si tratta di una situazione inaccettabile, peraltro già denunciata di recente dalla Garante dei diritti delle persone private della libertà Monica Gallo, per la quale chiedo alle autorità governative di intervenire con tempestività e, impegnandomi personalmente, cercherò anche di capire le ragioni per cui interventi di ristrutturazione all’interno del carcere previsti e finanziati non siano stati ancora realizzati. Non si può accettare di far vivere persone in condizioni disumane e tollerare la violazione del diritto ad assistenza e cure adeguate ai malati psichiatrici. Peraltro, il diritto alla cura è sancito a chiare lettere dalla nostra Costituzione e deve essere assicurato a tutti i cittadini, senza alcuna distinzione”.
Oltre alla condizione della struttura, per cui sono promessi da tempo interventi di ristrutturazione non ancora realizzati, la situazione drammatica è infatti quella del trattamento dei detenuti: “Qualcuno si è avvicinato alle sbarre al nostro passaggio – ha scritto Mainetti – Un uomo mi ha chiesto se potevo fare in modo che la turca della sua cella venisse aggiustata. Erano quattro giorni che non scaricava le sue feci, mi ha spiegato. Un altro uomo era al buio. Si è sporto dalle sbarre e mi ha detto che avrebbe voluto un po’ di luce. Il poliziotto che era con me, un po’ imbarazzato, gli ha detto di accenderla con l’interruttore interno, che sicuramente avrebbe funzionato. Ma lui ha detto di no, mancava proprio la lampadina. Effettivamente la luce non si accendeva. Non so da quanti giorni quel signore fosse al buio dalle quattro e mezza di pomeriggio fino all’alba del giorno dopo”.
Il racconto che l’esponente di Antigone fa, simile a quello che negli anni si è ripetuto senza che nulla cambiasse, è da togliere il fiato. “Un giovane uomo si teneva a stento in piedi sulle gambe. Aveva un filo di bava che gli colava sulla blusa. Gli occhi semichiusi, come se stesse per addormentarsi in piedi da un momento all’altro. Ha tentato di pronunciare qualche parola rivolto a me che mi ero fermata lì davanti. Faceva fatica ad articolare i suoni. Ha balbettato la parola ‘avvocato’. Mi è stato spiegato che l’uomo era a Torino per un periodo di 30 giorni di osservazione psichiatrica, mandato lì da un altro istituto. Non so cosa si possa osservare e diagnosticare in un uomo imbottito di farmaci fino al punto da non riuscire a parlare e a reggersi in piedi”.
E ancora: “Nell’ultima cella prima dell’uscita c’era un ragazzino. Avrà avuto 25 anni. Gli ho chiesto come andasse. Le lacrime hanno cominciato a scendergli dagli occhi. Mi ha detto che non capiva perché fosse lì, che gli mancava sua madre e che aveva tanta paura tutte le notti. Mi ha pregato di farlo trasferire. Gli operatori mi hanno spiegato che erano in attesa che si liberasse un posto in una Rems, le residenze a vocazione sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza psichiatriche. Il ragazzo non avrebbe dovuto trovarsi lì, non c’era titolo per la sua detenzione. Sono uscita e ho chiamato la madre. Era contenta che almeno qualcuno avesse visto suo figlio. Lei non ci era riuscita, nessuno le aveva detto dove lo avessero portato. Adesso si apprestava a recarsi a Torino”.
La direttrice del carcere, prosegue il racconto, “ci ha detto che lei ha la coscienza a posto perché ha scritto varie lettere al proposito e attende interventi. Certo, da sola non può fare molto. Ma qualcosa forse sì. Come qualcosa può fare la gestione sanitaria della sezione. Come qualcosa possiamo fare noi: far conoscere l’indecenza di questi posti, dove gli esseri umani sono privati di ogni dignità, trattati come corpi ammassati. Dove si rinuncia a vite umane come se fossero niente”.
E ancora: “Mi rivolgo alle autorità centrali che non sempre conoscono la periferia penitenziaria, mi rivolgo ai tanti dirigenti attenti e democratici che fanno con passione il proprio lavoro. Mi rivolgo agli operatori dell’informazione, che possono chiedere all’ufficio stampa del Ministero della Giustizia di essere autorizzati a entrare al reparto Sestante del carcere di Torino per raccontare fuori quel che troveranno dentro. Mi rivolgo a tutti loro: non credetemi, andate a vedere”.
Fonte: torino.repubblica.it