Non è un episodio facile quello capitato nel carcere di Viterbo e probabilmente è uno dei pochi che emerge, considerando il grado di omertà e silenzio che accomuna i detenuti di mezza Italia.
Si sa, senza indulgere in ingenuità inopportune, che dentro le carceri accadono cose che lì dentro rimangono, spesso all’insaputa della Polizia Penitenziaria abituata ad ascoltare versioni irreali di false cadute e pestaggi fatti passare per banali incidenti “domestici”.
A Viterbo, nel carcere “Mammagialla”, l’uomo protagonista di questa storia ci finisce nel luglio scorso. È il Tribunale di Latina a emettere un provvedimento di custodia cautelare per il reato 572 del codice penale: maltrattamenti contro famigliari o conviventi.
Il 45enne incarcerato non ha un profilo criminale, non è uno che in strada ci sa stare, né tantomeno dentro le patrie galere dove se sei avvezzo impari a comportarti come la norma barbarica esige.
Ad entrare in prigione il 45enne non l’avrebbe mai pensato in vita sua: dopo un periodo di liti e incomprensioni, la madre si decide a denunciare e l’uomo, prima è allontanato, e, poi, in seguito ad altra denuncia, viene ristretto nel carcere di Viterbo per l’aggravamento della misura. Una storia di violenze domestiche, come purtroppo se ne sentono e se ne leggono tante. Saranno i magistrati, come si dice in questi casi, a stabilire la colpevolezza o meno dell’uomo.
Dopo neanche un mese all’interno della casa circondariale di Viterbo, con la fama di essere un carcere molto duro e punitivo, dove si trovano anche boss e malavitosi di un certo peso, il 45enne si imbatte in un gruppetto di persone che mai avrebbe immaginato di dover affrontare nella sua vita precedente.
Incarcerato per maltrattamenti alla madre, il soggetto è a rischio. Nelle carceri, o meglio per la retorica e le leggi da branco carcerari, chi fa violenza a una madre è “un infame”. E non importa se a stabilirlo sono delinquenti con un pedigree penale lungo quanto un fiume o personaggi affiliati a clan di ogni genere e tipo.
Ecco, allora, che un giorno, dopo aver avuto comunque momenti difficili in cella, essendo capitato con uno che ha la fama di violento, il 45enne pontino sente bussare alla cella.
Secondo la sua denuncia sono in tre: lo spesino, che nel gergo sarebbe il detenuto addetto a raccogliere le richieste dei carcerati per i generi alimentari e a consegnarli, dopo averli ottenuti dal magazzino dell’amministrazione; il “cellante” dello spesino; e un volto noto alle cronache pontine e rampollo del Clan De Rosa/Di Silvio di Latina.
Ora, soprattutto, a Latina, due inchieste molto importanti, scaturite in due processi (uno dei quali arrivato in primo grado), hanno raccontato, di recente, del mondo carcerario: si tratta dell’inchiesta Astice e di Masterchef. Episodi inquietanti che hanno visto condannare anche due guardie carcerarie i quali, in cambio di droga e soldi, portavano nell’Istituto di Via Aspromonte sostanze stupefacenti e persino cibo di alta qualità (da qui il nome dell’inchiesta “Astice”).
O, ancora, scene di violenza e assoggettamento come quella per la quale devono rispondere, a processo, due tipi violenti come Gianfranco Mastracci, referente atipico del Clan Travali a Latina Scalo, e Roberto Ciarelli, figlio di Rosaria Di Silvio e Ferdinando “Furt” Ciarelli recentemente accusato di omicidio con l’aggravante mafiosa per il delitto di Massimiliano Moro.
I due suddetti sono accusati di aver spadroneggiato dentro il carcere di Latina così da costringere un paio di detenuti, con la violenza e le minacce, a cambiare cella.
Tuttavia, ciò che succede nel carcere di Viterbo non è stato ancora cristallizzato in una inchiesta e siamo ancora al livello di una testimonianza/denuncia. Secondo il 45enne, i tre – spesino, cellante dello spesino e rampollo del Clan De Rosa di Latina – entrano nella sua cella, in una giornata del luglio scorso, e gli ordinano di sedersi su uno sgabello. Intimorito, il 45enne esegue gli ordini e si vede sventolare in faccia un foglio. Si tratta del foglio matricolare dove viene spiegato perché si trova lì, al Mammagialla di Viterbo. “Guarda bene questo foglio e cosa ci sta scritto e adesso dicci come ti dovremmo definire – gli fanno i tre – per noi sei un infame di merda, non provare a fare nulla, non ti muovere, adesso tutto quello che succede lo devi solo subì“.
Uno di loro, lo spesino, indossa un guanto nero bagnato e gli altri due gli stanno ai lati. Da adesso in poi è il buio perché il 45enne viene colpito violentemente con una serie di schiaffi. Volano gli occhiali per terra e ancora giù schiaffi fino a che, non paghi, si avvicinano gli altri due ma è lo stesso spesino a fermarli e dire loro che non aveva ancora finito. E altri schiaffi, sempre nella parte sinistra tra volto e testa, anche all’altezza dell’orecchio. “Sei un infame di merda – gli dicono, secondo la testimonianza del 45enne – adesso tu ti fai i sacchi e da questa sezione te ne vai, fai attenzione bene a quello che ti abbiamo fatto perché se ti azzardi a fare qualsiasi tipo di denuncia noi anche da dentro te venimo a cerca’ fuori“.
Il cellante (ndr: compagno di cella) dello spesino, finito il pestaggio, si avvicina al 45enne e con la lama del coltello che tiene in pugno lo minaccia: “questo te lo ficchiamo dentro agli occhi“. Infine, il rampollo del Clan De Rosa, uno che ha la fama del picchiatore a Latina, lo finisce a parole: “Fai schifo, vattene, non mi sporco neanche le mani per menarti“.
Il 45enne prende un sacco nero, ripone quel che resta della sua roba e va via. A decidere le celle sono loro e non la direzione carceraria che, però, prova a porre rimedio. Un Agente della Penitenziaria, considerate le condizioni del 45enne, gli chiede cosa sia successo ma, per paura, l’uomo sta zitto. Ha timore di ritorsioni e di essere giudicato infame dagli altri detenuti nel caso riveli quanto subito. Solo che il pestaggio non è stato un confetto e il dolore inizia a salire. Passa la notte nella cella dirimpetto alla postazione dell’Agente Penitenziario e la mattina dopo il Comandante della Sezione lo convoca e prova a fargli dire cosa è successo. Niente, la paura è troppa e il 45enne sta zitto. “Sono caduto”, è quello che riesce a dire l’uomo. Si adegua, mentre il Comandante insiste inutilmente.
Dopo circe un mese, quel pestaggio, però, presenta il conto e il 45enne si accorge di perdere sangue dall’orecchio sinistro e di non sentire più niente. Accompagnato all’Ospedale Civile “Belcolle” di Viterbo, i medici danno il verdetto: distaccamento del timpano all’orecchio sinistro. Una settimana dopo, la visita specialistica conferma: l’udito dall’orecchio sinistro è andato. Per sempre.
È agosto ed è lì che l’uomo si decide a rilasciare spontanee dichiarazioni al Comandante di Sezione del carcere denunciando i tre che lo avevano ridotto male dentro quella cella e chiedendosi, a più riprese, come avessero avuto accesso al foglio matricolare che spiegava il perché fosse rinchiuso.
Passano altri mesi, il 45enne esce dal carcere viterbese a novembre scorso. Della denuncia a carico dei tre non sa più niente, solo che comincia a ricevere strane telefonate, alcune direttamente minacciose, altre mute. L’angoscia è tanta e anche la madre ne riceve una di telefonata in cui le dicono che stanno cercando suo figlio.
È così che il 45enne, a questo punto, sceglie di vivere e, invece di rinchiudersi nei suoi incubi, decide di denunciare di nuovo e racconta tutto in Questura a Latina.
Ci saranno accertamenti, tutto dovrà essere verificato. Ma un fatto, al di là di ogni agghiacciante particolare da riscontrare, è certo: l’udito dell’orecchio sinistro è rimasto in carcere, al Mammagialla di Viterbo.
Fonte: latinatu.it
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