Un nuovo decreto-legge sicurezza è stato varato dal governo nella notte tra il 5 e il 6 ottobre. Fra le misure adottate ci sono disposizioni penali destinate ad avere una profonda incidenza sulla vita nelle carceri. Norme volte a reprimere con sanzioni più severe chiunque favorisca detenuti sottoposti al regime del 41-bis offrendo loro strumenti di comunicazione con l’esterno. Di più. Nel testo è stata introdotta ad opera del ministro della Giustizia Bonafede, oltre alla citata norma, una nuova fattispecie di reato “che sanziona – si legge nel Comunicato stampa del CdM n. 65 – chi introduce o detiene all’interno di istituti penitenziari telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazione”.
La prima delle disposizioni menzionate eleva la cornice edittale di pena prevista all’articolo 391-bis del codice penale. Chi agevola con strumenti di comunicazione di qualunque tipo detenuti soggetti alle restrizioni del cosiddetto “carcere duro” o 41-bis rischia ora da due a sei anni di reclusione (laddove, in precedenza, si comminavano da uno a quattro anni). Nel caso in cui lo stesso reato venga commesso da un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio o un avvocato, si configura un’aggravante, con una pena detentiva che può andare da tre a sette anni (rispetto al precedente range da due a cinque anni).
Se poi, da un lato, si prevede un rafforzamento dell’effettività del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, dall’altro viene introdotta, come detto, la nuova figura di reato dell’introduzione o detenzione di cellulari o dispositivi di comunicazione nelle carceri.
Si tratta, secondo le parole del presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra, di una “innovazione normativa a livello penale che finalmente pone un argine a prassi criminali che stavano fiaccando l’efficacia del regime carcerario del 41-bis”.
Una riforma che appare, invero, ancor più innovativa se si considera il moltiplicarsi, in tempi anche recenti, di fenomeni di ritrovamento di cellulari proprio all’interno delle celle di massima sicurezza di detenuti condannati per mafia. Nel dicembre 2019, Giuseppe Gallo detto “Peppe ‘o Pazzo”, boss del clan camorrista Vangone-Limelli, detenuto al 41-bis nel carcere di massima sicurezza di Parma, è stato scoperto dagli agenti di polizia penitenziaria in possesso di ben tre cellulari. Tra aprile e maggio di quest’anno, poi, ha fatto scalpore il tentativo di un avvocato di consegnare nel carcere di Dozza, a Bologna, un cellulare al suo assistito.
Per non parlare di quello del drone che ha trasportato sei cellulari fin dentro il cortile del carcere di Secondigliano, a Napoli. Fatti gravi, per la repressione dei quali, tuttavia, non esisteva ancora una normativa adeguata.
Si capisce maggiormente da questi episodi l’indubbia importanza della scelta di individuare una fattispecie penale ad hoc a cui ricondurre simili casi. Ma, beninteso, la portata innovativa della riforma non deve (e non può) fermarsi qui: ciò che occorre per rendere effettivo il dettato normativo non può che essere, a questo punto, l’adozione di tutte le misure idonee a darvi attuazione. In che modo? Predisponendo le dotazioni necessarie alla polizia penitenziaria per combattere, ma soprattutto prevenire, il verificarsi del fenomeno.
E quindi fornendo rilevatori portatili di dispositivi elettronici, in grado di captare qualsiasi componente elettronico. Inviando rilevatori portatili di cellulari, capaci di rilevare chiamate o messaggi, che potrebbero rivelarsi veri e propri ‘pizzini digitali’. E infine munendo gli agenti di appositi disturbatori elettronici ‘jammer’, ossia quegli strumenti che consentono di bloccare le comunicazioni provenienti da o dirette a telefoni cellulari.
Spetterà ovviamente alle circolari del ministero e del Dap stabilire quali mezzi predisporre, quali risorse stanziare e secondo quali piani di fornitura. Resta il fatto che quella dell’attuazione concreta, alla luce soprattutto della delicatezza della materia carceraria, è una questione di vitale importanza.
A meno che non si voglia che la norma resti lettera morta.
Altre misure contenute nel nuovo dl sicurezza riguardano le materie dell’immigrazione, della protezione internazionale e complementare dello straniero, il divieto d’accesso a esercizi pubblici e locali di pubblico trattenimento e il contrasto all’uso del web a fini di spaccio di droga (e ad altri usi distorti). Viene reintrodotto, dopo la sua eliminazione di fatto per volontà dell’ex ministro dell’Interno Salvini, il caso del rilascio di un particolare permesso di soggiorno, detto “di protezione speciale“, a cui corrispondono il divieto di rimpatrio per il rischio di trattamenti inumani o degradanti, nonché di violazione del diritto al rispetto della sua vita familiare.
Si pongono le basi per un nuovo “Sistema di accoglienza e integrazione“, e non si preclude del tutto alle Ong di transitare nel mare territoriale: l’unica condizione è che le operazioni di soccorso avvengano previa comunicazione al centro di coordinamento e allo Stato di bandiera, nel rispetto delle indicazioni dell’autorità competente.
Si estende il Daspo urbano (cioè il divieto di accesso in locali pubblici) a soggetti su cui pende una denuncia o un processo “nel corso degli ultimi tre anni” per fatti inerenti alla vendita di sostanze stupefacenti e psicotrope. Si oscurano i siti che incentivano “la commissione di reati in materia di stupefacenti”. Degna di menzione la cosiddetta “norma Willy“, che prevede sanzioni più severe nei confronti di soggetti coinvolti in risse, per il solo fatto di avervi preso parte.
Fonte: it.blastingnews.com
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