Cesare Battisti è un simbolo della contemporaneità. È un simbolo malgré lui, ovviamente, la sua storia effettiva è quella di un terrorista “ideologico”si diceva nei disgraziati anni Settanta, cioè un criminale peggio che comune, le pallottole sparate più o meno a casaccio in nome dei Proletari Armati per il Comunismo, un ergastolo e quattro omicidi su quel che resta della coscienza. Ma la sua biografia rivista e corretta tra una tartina e un drink dal radical- chicchismo globale è tutt’ a tra, si sono inventati via via il “rifugiato politico”, se non il perseguitato, lo scrittore raffi- nato di noir esistenzialisti (è a quello che serve l’esilio a Pari gi, a passare dalla banda armata alla cricca intellettuale), compagno di strada di Lula e di Bernard-Henri Lévy.
È uno dei loro, Battisti, durante la lunga latitanza in Brasile divenne una sorta di eroe dei due mondi del progressismo, nonostante le sue gesta siano tutto tranne che eroiche: un gioielliere, un macellaio, un agente di custodia e un uomo della Digos, quattro esecuzioni a sangue freddo. E oggi, dal carcere di Rossano Calabro in cui sta tardivamente saldando il conto delle suddette gesta, ci dipinge un affresco spettacolare, plastico della loro ipocrisia, l’ipocrisia di quel mondo di cui è diventato un’icona involontaria. Scrive, Battisti, non più un giallo ma una lettera-appello, non “Le mie prigioni” di Silvio Pellico, ma una più prosai-ca lamentela al Dap (Diparti- mento amministrazione peni-tenziaria) contro il rigetto dell’istanza di trasferimento che avevano presentato i suoi avvocati. Decisione che fa annunciare all’ex combattente per il comunismo lo sciopero della fame e la sospensione delle cure che sta seguendo per i suoi problemi di salute, visto che il “grande disagio” che prova nel regime di Alta Sicurezza (AS2) non è più pro-crastinabile.
E una delle ragioni principali alla base della condizione intollerabile da cui chiede di essere sollevato è la seguente: «Il Dap pare ignorare che nel reparto dove sono detenuto nulla è predisposto per i detenuti che non condividono i costumi e la tradizione musulmana o che abbiano vivaci incompatibilità di convivenza con questa categoria di detenuti». Ci sono troppi immigrati di fede islamica, da quelle parti, non va bene, un conto è frequentare e farsi proteggere per lustri dalla crème del buonismo inclusi – vista su ambo le sponde dell’Atlantico, un conto è es – sere scaraventato faccia a factrascorsi in esilio» (col linguaggio del resto del mondo: in fuga dalla giustizia) all’insegna tra l’altro del «pacifico coinvolgimento nell’iniziativa culturale e nel volontariato».
Lì, di fianco al tuo vicino di cella, non avverti nessun «pacifico coinvolgimento», ma scopri accenti quasi falla ciani, scopri di avere «vivaci incompatibilità di convivenza» con i fedeli in Allah. «L’As2 di Rossano è una tomba, lo sanno tutti. Il famigerato portone “Antro Isis” è tabù perfino per il cappellano. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme».
Fossero parole di un ex terrorista di destra, oggi il Giornalone Unico strillerebbe ad aperture unificate contro il fascismo perenne. Battisti, il cocco dei salotti della gauche caviar, sa che può farlo, può invocare il trasferimento perché circondato da «ferventi musulmani», cioè per motivi di razzismo culturale, se volessimo usare i canoni di quella stessa gauche. «Sono l’unico detenuto non legato al terrorismo islamico», annota amareggiato, come se terrorizzare e uccidere in nome dei Proletari per il Comunismo fosse diverso, qualitativamente e moralmente, da terrorizzare e uccidere in nome della sharia. La rivoluzione marxista conserva pur sempre una sua allure, signora mia, non è la puzzolente rivoluzione coranica, eravamo al massimo compagni che sbagliavano, mica fetenti maomettani.
Ma tutto l’appello di Battisti è un esercizio in bilico tra realtà e controsenso, visto che tra i fattori che lo avevano fatto ben sperare per il trasferimento cita la «grande disponibilità alla riconciliazione con quei settori della società che più hanno sofferto le conseguenze della lotta armata, con particolare riferimento alle famiglie delle vittime». Se non lo ha capito nel 2021 non sappiamo come spiegarglielo: non deve essere lui, “disposto alla riconciliazione”, devono esserlo loro. «L’Italia ha mentito, garantendo un trattamento umano e clemenza», insiste in terza persona, «lo provano le condizioni della prigionia di Cesare Battisti». Addirittura messo nello stesso braccio dei musulmani. Inaccettabile.
Fonte: liberoquotidiano.it