«L’ambiente influenza la nostra visione del mondo e il nostro umore. Pensiamo ai nostri neuroni specchio: sono neuroni che si specchiano nella realtà che viviamo, per cui stare in un contesto degradato e lugubre ci trasmette questo tipo di emozioni e la nostra mente produce questo tipo di pensieri. È esperienza umana universale l’emozione che si prova davanti a un panorama, davanti a un paesaggio, a un tramonto o a una veduta marina. Se tutta la specie umana è sensibile a questo tipo di emozioni, è evidente che c’è qualcosa nel nostro cervello che ci fa pensare anche in funzione di quello che viviamo e di quello che sperimentiamo con il nostro corpo». Raffaele Felaco, presidente dell’associazione Psicologi per la responsabilità sociale e in passato presidente dell’Ordine degli psicologi della Campania, accetta di approfondire con il Riformista la riflessione sull’impatto dell’edilizia penitenziaria e su come quest’ultima condizioni negativamente il percorso di risocializzazione dei detenuti ostacolando, se non addirittura annullando, la funzione rieducativa della pena costituzionalmente garantita.
Professor Felaco, quanto è importante investire sugli spazi?
«È importantissimo. Investire sui luoghi vale sempre, tanto più per il carcere. Con il lockdown c’è stata un’impennata del mercato immobiliare per le case che offrivano spazi esterni, terrazzi, giardini e così via. Vuol dire che ci sono bastati due mesi di chiusura in casa per farci rendere conto di cosa avevamo bisogno nelle nostre case, di cosa ci mancava. È chiaro che il rapporto con lo spazio che si vive è fondamentale per la dimensione e il benessere psicologici di ognuno noi. E ovviamente il discorso vale anche quando si affronta l’argomento carcere».
È un dato che la maggior parte degli istituti di pena della Campania abbia strutture vecchie, in alcuni casi fatiscenti, comunque bisognose di interventi di manutenzione e ammodernamento. Quali sono le conseguenze per i detenuti che scontano la pena in questi istituti?
«Queste non sono condizioni di vita umane né sono condizioni riabilitative. Non si può avere alcuna speranza che una persona possa riabilitarsi se sta chiusa in una cella e basta».
Le carceri, quindi, così come sono attualmente strutturate, andrebbero chiuse secondo lei?
«Certamente. Le carceri, così come sono, non rieducano e non hanno alcun senso se non quello del contenimento. Sono istituzioni contenitive che non possono che peggiorare la situazione, dal punto di vista psicologico, di chi è recluso. Poi, naturalmente, esiste il problema della pena, il problema della punizione quando si contravvengono le norme, ma resta il fatto che le nostre carceri non sono umane».
Come si potrebbero ripristinare condizioni di umanità?
«Se noi crediamo, come crediamo, che il carcere debba essere un luogo di riabilitazione, oltre che di espiazione della pena, dobbiamo creare delle carceri e delle pene che siano in condizione di essere riabilitative».
Come si fa a garantire la rieducazione e la risocializzazione di un detenuto?
«Questo è un enorme problema. Ci sono tre cose importantissime da fare. Sicuramente puntare sul lavoro, perché restituisce una dignità; sulla cultura, perché spesso abbiamo a che fare con persone che hanno grandissime lacune sotto quel profilo; sugli affetti, perché il carcere deve essere un’occasione per dare valore agli affetti e alle relazioni. Serve, dunque, uno sguardo sul versante umano e psicologico delle persone. Poi è chiaro che ci sono aspetti che riguardano la sicurezza e l’ordine pubblico da valutare, ma non riguardano una competenza che posso avere io».
Una proposta?
«Più che chiuderle, avrei ammodernato le carceri sulle isole dove le persone potevano camminare all’aperto, coltivare un orto, avere spazi ampi. Ecco, una proposta potrebbe essere quella di pensare a carceri con grandi spazi dove, pur stando all’interno di un controllo, i detenuti possono avere la possibilità di svolgere attività e una vita più umane».