Basta esplorare gli hashtag #prisontiktok e #prisonlife sull’app di produzione cinese per vedere apparire centinaia di video dove i reclusi raccontano la loro quotidianità o denunciano le condizioni in cui versano le carceri. Tanto che gli istituti stanno correndo ai ripari.
Negli ultimi tempi TikTok è diventato un social media molto popolare per una vasta gamma di persone, dagli adolescenti ai professionisti: pochi però sanno che il suo utilizzo è esploso anche fra i detenuti. Parliamo di uomini e donne che, pur stando attualmente scontando un periodo di detenzione, sono riusciti a ottenere telefoni cellulari di contrabbando con cui non solo comunicano con i propri cari, ma condividono anche la loro vita quotidiana sul social network di proprietà della cinese ByteDance. Basta esplorare gli hashtag #prisontiktok e #prisonlife su TikTok, per vedere apparire centinaia di video dove i reclusi descrivono la loro vita in cella, mostrano tour virtuali dei penitenziari, rendono pubblica la loro giornata e condividono le spesso difficili condizioni in cui versano le carceri.
Tra i tanti video, ce n’è uno che spiega come realizzare un caricabatteria per un telefono bootleg, visto più di 10 milioni di volte sulla piattaforma. In un altro contenuto, con quasi 9 milioni di visualizzazioni totali, un detenuto racconta invece quanto sia difficile essere bisessuali in un ambiente come il carcere.
Il fenomeno è esploso negli Stati Uniti, e neanche l’isolamento o misure speciali decise dalle carceri – come l’aumento della pena di un anno, nel caso un detenuto venga sorpreso con un cellulare dentro la propria cella – hanno disincentivato questa tendenza. È succede anche in Italia. Ad Avellino, l’anno scorso la Polizia penitenziaria è intervenuta dopo la diffusione capillare su TikTok di alcuni video girati nelle celle. Le immagini che mostravano l’interno del penitenziario locale erano state condivise da un account riconducibile a uno dei reclusi, e durante la perquisizione, sono stati trovati tre telefoni e uno smartphone, nascosti in un barattolo di passata di pomodoro.
La domanda non può che sorgere spontanea: come è possibile che dei detenuti possano entrare in possesso di telefonini di contrabbando, soprattutto in un periodo come questo dove sono stati notevolmente ridotti gli incontri con i parenti, sostituiti dalle videochiamate? Secondo un rapporto del ministero della Giustizia, nei primi 9 mesi del 2020 sono stati 1761 gli apparecchi rinvenuti nelle carceri italiane, requisiti all’interno delle strutture o bloccati prima del loro ingresso. Un dato non enorme, certo, ma in aumento: nello stesso periodo del 2019 il numero si era fermato a 1206.
Il motivo è semplice: ai detenuti viene concesso l’opportunità di ricevere i pacchi dell’esterno. E spesso al loro interno vengono nascosti i dispositivi telefonici. Per rimanere alla cronaca recente, nel carcere di Rebibbia a Roma, ad esempio, due microtelefoni e un caricabatteria erano stati nascosti all’interno di tre pezzi di formaggio destinati a un detenuto. A Carinola (Caserta) un sacerdote che doveva celebrare la messa domenicale nell’istituto è stato trovato con 9 cellulari nascosti nelle buste di sigarette e tabacco che avrebbe dovuto portare ai carcerati.
Se prima l’introduzione degli smartphone in carcere era trattata come illecito disciplinare e sanzionata all’interno dell’istituto, da ottobre scorso è diventato un vero e proprio reato, previsto dal nuovo articolo 391-ter del codice penale. Le nuove norme prevedono una pena da 1 a 4 anni per chi introduce o detiene telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazione all’interno di un istituto penitenziario. E per la prima volta viene punito sia chi, dall’esterno, cerca di introdurre un telefono in carcere sia il detenuto che ne entra in possesso.
Su TikTok, spesso vengono pubblicati anche i colloqui telematici dei detenuti con i parenti, usati per trasmettere informazioni o direttive all’esterno.
E mentre le autorità italiane si stanno organizzando per prevenire la diffusione di questo genere di video, da TikTok per ora tutto tace, in attesa di capire meglio i numeri del fenomeno.
Tratto da: wired.it