Così le carceri nate dalle comunità terapeutiche chiudono le porte alle raccomandazioni europee

La moderna organizzazione del sistema penitenziario italiano è stata delineata dalla legge 354 del 1975 per una popolazione carceraria allora ripartita tra reparti di massima sicurezza e quelli ordinari.
I primi su isole quali l’Asinara e Pianosa e Favignana e nelle carceri “speciali” di Cuneo, Novara, Fossombrone, Latina, Trani, per gli affiliati alle associazioni criminali (camorristi e mafiosi) e, soprattutto, per i responsabili del terrorismo autoctono.
In quelli ordinari, invece, destinati agli autori dei reati comuni quali l’omicidio, il furto, lo sfruttamento della prostituzione etc. la via è quella della custodia preventiva fino a quando la condanna definitiva non li candida ad una delle Case di Reclusione quali Alessandria, Ariano Irpino, Carinola, Volterra, etc..
All’inizio degli anni novanta Fabrizio De Andrè canta “Don Raffaè” mentre il fenomeno della droga dilaga nella società ridisegnando anche la demografia penitenziaria e per coloro che cadono nella trappola della droga e accedono al carcere il modello diventa quello della custodia attenuata, sulla falsariga della comunità terapeutica.
I Direttori dei primi ICATT (Istituti a Custodia Attenuata per il Trattamento dei Tossicodipendenti) nati a partire dalle previsioni contenute nel Testo Unico sugli stupefacenti (l.309/1990) oggi sono tra i Dirigenti Generali che gestiscono “dall’alto” il sistema penitenziario in cui, però, è oramai prevalente la presenza di mafiosi appartenenti alle 4 criminalità (a Mafia e Camorra si sono aggiunte ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita) e stranieri per lo più extracomunitari e di provenienza nordafricana.
Gli stranieri, infatti, hanno mutato la demografia penitenziaria, dopo essersi accaparrati lo spaccio della droga nelle città del Nord con soglie di presenza nei corrispondenti penitenziari quali ad esempio San Vittore a Milano e Le Vallette a Torino (oggi Lorusso Cutugno) di molto superiori rispetto alla percentuale degli italiani.
Ma la vita dei nordafricani in carcere continua ad essere scandita dalla legislazione del 1975 (nata per mafiosi, terroristi e per gli italiani della dieta mediterranea ) ed il tentativo del legislatore del 2000 di risolvere tutto con il regolamento penitenziario (Dpr 230/2000) si rivela fallimentare.
Nel carcere gestito dai manager degli ICATT degli anni ’90 non c’è, infatti, nessuna indicazione sulle alternative alla pasta asciutta, al telefono fisso, oppure per la presa in carico di soggetti portatori di grandi disagi e malattie (ad es. scabbia, tubercolosi…).
Paradossalmente, invece (ma neanche tanto) la legislazione europea contempla nelle sue raccomandazioni del 2006 anche questi aspetti più molti altri riguardanti la sicurezza e il personale ma l’Italia nonostante quella che dovrebbe essere la diretta applicazione delle predette regole indugia nel recepirle, le disattende, cercando di modellare la detenzione di uno straniero sul modello italiano e preoccupandosi della “forma” della detenzione più che dei contenuti e dei risultati, invero scarsi, ottenuti.
Il risultato è una anacronistica gestione del carcere, una Polizia penitenziaria costretta ad assistere alla pervicace violenza di soggetti che manifestano il loro disagio con aggressioni e risse sempre più cruente.
Tale evenienza non era sfuggita al Legislatore europeo – nei confronti del quale lo Stato italiano aveva assunto un preciso impegno – che tuttavia non trova attuazione.
I detenuti violenti non camminano con ferri e catene nelle attuali carceri, ma si muovono liberamente e restano a convivere con soggetti deboli, riconvertendo gli spazi di detenzione in piazze di spaccio.
Il carcere, nella sostanza, perde la sua funzione e da contesto di legalità si trasforma in zona d’immunità perché dentro alle sezioni detentive la cultura ed il modello dominante sono quelli della criminalità.

LEO BENEDUCI

Redazione OSAPPoggi

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