Nulla potrà mai giustificare Santa Maria Capua Vetere, ma una spiegazione andrà pur cercata se le condizioni di vita in carcere sono diventate insostenibili, come dimostra l’aumento, costante negli ultimi anni, di tentati suicidi, atti di autolesionismo e aggressioni.
Al sovraffollamento si imputa tutto, e secondo il rapporto Space 2020 del Consiglio d’Europa, abbiamo la percentuale più alta di tutta la Ue: su una disponibilità di 50.779 posti, i detenuti sono 53.637.
Con grandi differenze fra un carcere e l’altro, alcuni semivuoti e altri dove stanno pigiati come sardine, come a Poggioreale, dove c’è posto per 1.500 persone, ma sono in 2.062. A Regina Coeli non dovrebbero superare i 600, sono 893; a Bologna su 500 posti sono in 744; a Bergamo dove la disponibilità è di 315, i carcerati sono 529.
Certo, il Covid, unito alla impossibilità di distanziamento, ha fatto salire la tensione, ma il totale dei detenuti è molto diminuito: nel 2010 erano quasi 70.000. Allora perché i dati negli ultimi sei anni sono peggiorati? C’è qualcosa in più.
Inizia tutto con una scelta di civiltà. Fino al 2011 chi non aveva condanne per reati particolarmente gravi o di criminalità organizzata, passava due ore al giorno all’aria aperta e due con la cella aperta. A novembre dello stesso anno, la circolare 3594/6044 diramata dall’allora direttore trattamento detenuti Sebastiano Ardita concede più fiducia ai meritevoli. L’Amministrazione istituisce reparti dove le celle restano aperte più a lungo per soggetti di scarsa pericolosità, e assegna ad ogni detenuto un codice su «criteri oggettivi». Bianco a chi non ha commesso violenze o minacce, verde a chi non appartiene ad associazioni finalizzate a reati violenti, giallo per violenti che in carcere abbiano mantenuto atteggiamenti di tipo sociale. Rosso agli altri, che, alla lunga, possono risalire la gradazione cromatica.
L’obiettivo è quello di elevare la responsabilità di ciascuno: più mi comporto bene e più ore d’aria avrò
Nel 2015 la svolta: arriva una nuova circolare: la 3663/6113. La firma l’allora capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Citando i richiami della Corte Europea dei diritti dell’uomo, fa spazio alla discrezionalità delle direzioni dei penitenziari nella valutazione dei singoli e, soprattutto, spalanca le celle. Ai detenuti (eccetto i mafiosi e i 41 bis) vengono assegnati due soli regimi: custodia «chiusa» e «aperta». Ma quella «chiusa» prevede un «tempo minimo da trascorrere fuori delle camere detentive di 8 ore», mentre quella «aperta» fino a 14 ore e uno spazio di libertà di movimento da raggiungere «senza onere di accompagnamento». Inoltre dispone che durante le attività dei detenuti gli agenti siano «all’esterno delle sezioni, senza la necessità di presidi stabili nei reparti e nei luoghi di pertinenza». In sostanza: autogestione.
Un anno dopo i numeri mostrano il risultato di quella scelta: le aggressioni fra detenuti sono 776 in più, quelle agli agenti penitenziari 116, le infrazioni disciplinari sono 6.602 in più, le violenze, minacce e resistenze ai pubblici ufficiali 498 in più. Crescono i mancati rientri e gli atti di atti di autolesionismo (1557 in più), ma il capo del Dap, che resterà fino al 4 luglio 2018, non ci dà peso. Non lo fa nemmeno il suo successore, Francesco Basentini, che nel 2020 si trova a gestire la crisi del Covid con le rivolte di marzo, le polemiche per la scarcerazione dei boss e, ad Aprile, le botte degli agenti sui detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Si dimette il mese dopo, e al suo posto viene nominato il magistrato Dino Petralia. Intanto lo spazio lasciato libero viene riempito. E dove manca il presidio, l’ordine lo dettano i detenuti più temuti, che potendo circolare liberamente possono prendere il carcere in mano. E se guardiamo i dati del 2014 (prima dell’entrata in vigore della circolare del 2015) e li confrontiamo con gli ultimi disponibili, sembra sia proprio andata così.
Le aggressioni contro la Polizia Penitenziaria passano dalle 387 del 2014 alle 837 del 2020. Quelle fra detenuti da 2.039 arrivano a 3.501. Contro il personale amministrativo da zero a 36. Un’impennata verticale si registra nelle violenze, minacce, ingiurie, oltraggi e resistenze ai pubblici ufficiali: da 319, nel 2020 schizzano a 3.577. Le colluttazioni sono più che raddoppiate: da 1.598 a 3.501.
Nelle celle sono spuntati telefonini o sim card: da 118 a 1.140. Sono arrivati anche i coltelli: da 55 a 196.
Le violazioni di norme penali sono salite quasi di cinque volte: da 1.443 siamo arrivati a 5.536 nel 2020 . Crescita vertiginosa delle infrazioni disciplinari ( intimidazioni, atti osceni): erano 1.127, sono arrivate a 10.106. Difficile pensare che i detenuti stiano meglio. Ma il dato più allarmante è quello sui i reati «spia» del disagio: i tentati suicidi da 933 sono arrivati a 1.480. Gli atti di autolesionismo, dai 6.919 del 2014 sono arrivati a 11.315 . Soloa Santa Maria Capua Vetere, nell’ultimo anno e mezzo, sono stati quasi 300. Una tensione che molti si aspettavano che sarebbe esplosa e, complice il panico da Covid, in quel penitenziario mal gestito, con 150 detenuti oltre capienza, infestato da insetti, condizioni igieniche precarie, è accaduto.
Una cosa è certa, i numeri allarmanti smentiscono l’equazione: «celle aperte, meno oppressione». E aprono squarci su situazioni di sopraffazione dove a subire sono soprattutto i detenuti più giovani, i nuovi arrivati, i meno pericolosi. Quelli che, se aggrediti, hanno paura a denunciare, e preferiscono le sanzioni pur di non rientrare nell’incubo. Poi ci sono le violenze sessuali, non denunciate per vergogna. Un problema enorme perché in Italia l’affettività, usata nel resto d’Europa come incentivo (fai il bravo e vedrai il tuo partner), viene negata. Una situazione in cui stanno male anche gli agenti, sottodimensionati, non sempre adeguatamente formati, che faticano a mantenere l’ordine e possono essere tentati, a loro volta, dalla violenza, come dimostrano le brutalità nel carcere campano.
Le indicazioni della Corte Europea a cui si è fatto riferimento sono ben altre: chiedono di adottare un modello penitenziario basato sulla funzione rieducativa della pena.
Le celle aperte si inseriscono nell’organizzazione di attività lavorative che il carcere deve garantire. Il problema è che non ci sono fondi sufficienti per retribuire il lavoro del carcerato
Nelle nostre carceri sono poco più di 2.000 i detenuti che hanno una occupazione regolare, mentre circa 15.000 lavorano come scopino, addetto alla lavanderia o cucina poche ore al giorno e a giorni alterni. Tutti gli altri vengono lasciati a fare niente. E non basta sbandierare le buone esperienze di Bollate, Padova e altre piccole realtà, perché il detenuto non può scegliere dove scontare la pena. Risultato: quasi il 70% di chi esce dal carcere, poi ci ritorna.
Fonte: corriere.it – di Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo
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