CARCERI

Gherardo Colombo: «Ho capito che il carcere non educa, la vera giustizia è inclusione»

Ha mai infranto una regola?
«Eccome!»

Per esempio? Qual è il suo punto di rottura con la legalità?
«Forse la velocità. Quando ero giovane e andavo in moto andavo forte, poi ho avuto un paio di incidenti, peraltro andando adagio, e fine».

Quand’è che smettiamo di seguire le regole?
«Quando non le riteniamo giuste. Fino a quando siamo convinti che una norma sia giusta è difficile che decidiamo di infrangerla — anche se qualche infrazione occasionale capita».

Mi viene in mente un passaggio di Furore, di Steinbeck: «Il modello era così saldo che una famiglia rispettosa delle regole riconosceva la propria sicurezza in quelle regole».
«Ecco perché da anni dico che la punizione non educa».

Gherardo Colombo lo dice più o meno dal 2007, da quando ha lasciato la magistratura. Ma, prima, di punizioni ne ha inflitte molte: come giudice, poi come pubblico ministero e poi ancora come giudice, ha giudicato e condannato capi di mafia, ha scoperto la P2 e con Tangentopoli ha fatto affiorare un gigantesco sistema di corruzione. Da anni ormai si dedica (con l’associazione Sulleregole) ad una capillare riflessione sul concetto di giustizia e di educazione, incontrando migliaia di studenti e svolgendo volontariato nelle carceri. È appena uscito per Chiarelettere il suo libro Anche per giocare servono le regole che apre la collana «Ricreazioni», dedicata ai cittadini di domani. Partiamo da qui.

Quand’è che si è convinto dell’inutilità, anzi della nocività del carcere?
«Soffrivo ogni volta che dovevo imprigionare o richiedere la prigione per qualcuno. Non riuscivo davvero a capire l’elemento che legittimasse il mio potere di sottrarre un padre o una madre ad un figlio. Mi è rimasto impresso un collega che allegramente chiedeva venti anni di galera. Riflettevo allora sul concetto di giustizia: un peso enorme ce l’ha la disponibilità nei confronti dell’altro».

Penso alla «parabola del figliol prodigo»: il suo è un concetto di giustizia quasi cristiano.
«Attenzione: in quella parabola come, indirettamente in quella “dei lavoratori della vigna”, c’è un chiaro riferimento alla giustizia, che non è quella simboleggiata dalla bilancia (“ti restituisco il male che hai fatto”), anzi ne è l’esatto opposto. La retribuzione è simbolo della perpetuazione di un conflitto, la giustizia — al contrario — è inclusione, è superamento di quel conflitto».

Lei ha dedicato una carriera a far emergere «quel che non si sa». È servito?
«Lo svelamento della mafia, le condanne di tante persone, la mafia non l’hanno fatta sparire e nemmeno marginalizzata; la scoperta della P2 è stata rintuzzata dal trasferimento delle indagini ad altra sede, e quel che già era stato scoperto (e ciò che è emerso successivamente grazie a una commissione parlamentare d’inchiesta) non ha portato a cambiamenti sostanziali; altrettanto è avvenuto per i fondi neri dell’Iri».

E il carcere non educa?
«Il 68-70 per cento delle persone che ha subito il carcere, in carcere ci ritorna, per aver commesso reati ulteriori: credo basti questo a confutare l’efficacia educativa dello strumento».

Non crede che, tra le eredità culturali lasciate da Tangentopoli, ci sia anche l’illusione — purtroppo a volte anche in campo politico — di poter raggiungere la purezza assoluta?
«La “perfezione”, per essere precisi. Ho la sensazione che ci si creda perfetti, onnipotenti. Puri rispetto agli altri, che sono impuri e imperfetti. Guardi solo il tono di certi social network: mi impressiona vedere quanto alcuni si sentano al di sopra degli altri, giudichino gli altri, non ammettano ombre nel proprio operato».

Il dubbio, l’incertezza, sembrano spariti.
«Il problema è che la libertà non è l’onnipotenza, anzi. La libertà consiste nella scelta e la scelta implica rinuncia».

Dunque, ci illudiamo di essere liberi ma non lo siamo.
«Chi è libero sceglie tra più alternative ciò che ritiene più opportuno, più utile, più piacevole, tenendo conto delle conseguenze. Ripeto, libertà non è onnipotenza: non posso scegliere di bere e dormire contemporaneamente».

Il suo libro lo dice chiaro: affinché si rispettino le regole è necessario che la gente capisca perché sono state fatte. E il rischio che si seguano le regole sbagliate?
«Oggi è l’8 settembre (il giorno in cui ci siamo incontrati in un caffé di Milano per questa conversazione, ndr): bene, nel 1938, esattamente tre giorni fa, veniva scritta la terribile pagina italiana delle leggi razziali, che molti applicarono coscienziosamente. Sì, qualche volta la trasgressione è necessaria. Galileo, d’altra parte, era un grande trasgressore. Ma c’è differenza tra legalità e giustizia. Se una legge ingiusta viola i diritti fondamentali più significativi della persona , la legge non solo può, ma nei casi più gravi addirittura deve essere trasgredita».

Purtroppo in questo periodo si parla di norme sanitarie. E c’è chi dice, che i vaccini fanno male e che, allora, non bisogna vaccinarsi.
«Ma se dietro una regola c’è una dimostrazione, in questo caso scientifica, dell’efficacia, bisogna far comprendere che quella è la strada giusta. Sui vaccini, poi, quelli della mia età (Colombo è del 1946, ndr) sanno bene che cosa era il mondo con la poliomielite. Io peraltro ho anche rischiato di morire a causa di una polmonite complicata dal morbillo. Per fortuna mio padre, medico, riuscì a procurarsi dei sulfamidici in Svizzera. Molti altri bambini non sono stati così fortunati».

Resta il fatto che ci si sente superiori — in questo caso, alla scienza.
«Torniamo al discorso dell’onnipotenza. Io credo che questo diffuso sentirsi “competenti su tutto” nasca proprio da lì. Attenzione a non confondere merito (parola che non mi è simpatica) e competenza. La competenza è specifica: saper riparare quel mobile, saper trovare un vaccino, saper gestire le libertà degli altri. Ho la sensazione che da anni ci sia una svalutazione del concetto di competenza: un onnipotente pensa di sapere tutto».

E lei si è mai sentito onnipotente?
«Credo proprio di no. Anzi, ho vissuto con grande travaglio la fase della mia vita in cui ho messo sotto la lente il potere. Forse mi sono sentito onnipotente da bambino, quando provavo a me stesso che potevo percorrere in bici il sopra di un muretto senza spostare un piccolo legno posto sopra. Caddi, naturalmente, e mi feci male».

Eppure il potere sembra essere all’origine delle cosiddette battaglie populiste. Per la verità io ci vedo un bersaglio piuttosto confuso o quantomeno ondivago. Chi è il bersaglio dei populisti? Una non ben definita «élite intellettuale»? E che vuol dire? O sono forse i ricchi?
«Il populista per identificarsi ha bisogno di un nemico. Il nemico non può essere il “ricco” tout court perché allora uno si chiede come mai nessuno se la prenda con il top dei calciatori. E se qualcuno si domanda perché uno che sta col popolo finisce per seguire un miliardario come Trump io penso che sia perché questi sono riusciti a dipingersi come uomini che si sono fatti da sé e dunque alimentano delle illusioni. Bisogna identificarsi con qualcuno per credergli».

L’importante è avere un nemico con cui prendersela.
«È tipico delle culture autoritarie avere qualcuno da tenere sotto di sé. Possono essere gli ebrei, gli immigrati, le donne».

Dottor Colombo, c’è qualcosa o qualcuno che non riesce a perdonare?
«Mi sembra che mi venga automatico non conservare rancore. Il che non toglie che abbia provato fortissimi sentimenti negativi nei confronti di chi uccise colleghi molto vicini, rimesti vittime di terrorismo e mafia».

Che cosa stava facendo in quel 12 dicembre 1969?
«Facevo il militare e avevo appena messo il piede sulla camionetta quando mi dissero che c’era stata una fortissima esplosione a Piazza Fontana».

Si è fatto un’idea sul tessuto sociale e culturale che ha alimentato la stagione delle stragi?
«Sarebbe un discorso molto complesso. Mi limito a dire che secondo me dopo la guerra l’Italia ha fatto una grande fatica a scrollarsi di dosso la cultura precedente alla guerra. Non ce ne siamo accorti subito, ma penso che sia così».

Negli anni Sessanta c’era ancora parecchia discriminazione.
«Penso ai contadini: non diciamo che vivevano come quelli dell’Albero degli zoccoli ma quasi. Qualcosa cambiò con l’arrivo della Vespa e o della lambretta. Almeno furono liberi di spostarsi oltre i confini comunali».

Nei suoi ricordi compare spesso la cascina di famiglia di Renate, raccontata anche nel libro «Il vizio della memoria». I suoi genitori elargivano punizioni frequenti?
«Da mio padre ho ricevuto solo uno schiaffo. E basta. Ho tre figli, di 47, 26 e 24. Ho applicato il criterio educativo che ritenevo giusto, che però si è modificato nel tempo. Credo comunque sia essenziale essere coerenti: se dici agli studenti di spegnere il cellulare tenendo acceso il tuo educhi all’ipocrisia»

Di che cosa ha paura oggi?
«Non è una paura, è piuttosto un pensiero fastidioso: ogni tanto mi viene da dire “che peccato dover morire”».

fonte: corriere.it

Giuseppe Proietti Consalvi

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