Il dottor Giuseppe Santalucia, da poco eletto a guida dell’Anm, ha il privilegio di poter guardare alle questioni di politica giudiziaria avendo un bagaglio professionale e culturale costruito ricoprendo diversi importanti ruoli: sostituto procuratore, gip, giudice di Cassazione ma anche capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia ai tempi di Andrea Orlando.
È esponente di Area ma conserva la tessera di Magistratura democratica e non si è sottratto ad affrontare la divisione tra i due corpi associativi.
Si è appena concluso un anno molto difficile sotto diversi aspetti. Lei per esempio è alla guida dell’Anm dopo la bufera del caso Palamara. Da dove si ricomincia?
Si ricomincia dalla consapevolezza della gravità di quanto si è, ancora solo in parte, accertato; consapevolezza che è pungolo per la ricerca e per la realizzazione di un rinnovamento effettivo. L’evocazione del rinnovamento ad alcuni suona come stanca e ipocrita formula che vuol celare l’incapacità di cambiare le cose. So che oggi è forte il pericolo di non esser creduto, perché l’Anm sconta una diffusa sfiducia. Per questo ci affideremo alla concretezza delle nostre azioni.
Oltre il caso Palamara, per alcuni unico capro espiatorio, grandi divisioni ci sono state per l’affaire Davigo. Qual è la sua posizione su questo?
Il tema del capro espiatorio è all’antitesi del rendere giustizia. Nessuno ha voluto o vuole caricare sul singolo le colpe di un sistema, polarizzare il confronto/scontro tra l’accusato e gli accusatori, in modo che sull’uno ricada l’intera responsabilità di una stagione triste, e tutti gli altri siano magicamente emendati. La giustizia è fenomeno più complesso, che necessita di tempi adeguati e di seri approfondimenti. Sbaglia chi ritiene che con il caso Palamara si sia cercato di mettere sotto il tappeto la (tanta) polvere che è venuta fuori. Nessuna rimozione, da un lato; nessun accertamento sommario, dall’altro. Sul caso Davigo ho veramente poco da dire. Si sono già pronunciati i giudici amministrativi, è una questione che ormai appartiene alle aule di giustizia più che al confronto politico-istituzionale.
Qual è la cura alle degenerazioni del correntismo?
La cura è eminentemente culturale. Il correntismo si è affermato in un lungo periodo di distrazione dall’impegno collettivo e di ripiegamento in una dimensione privata. In molti la sfiducia verso l’assunzione di compiti nella sfera pubblica, latamente politica, ha comportato una chiusura egoistica in se stessi e nei piccoli e personali interessi di carriera. Le correnti sono state private dell’apporto diffuso di un collettivo ampio e le dirigenze associative si sono ritrovate più sole e meno vigilate, più fragili perché non irrobustite dal confronto sulle idee e sui progetti. In questo scenario di allontanamento dalla politica, dalla politica associativa, anche in nome di un malinteso modello di magistrato chiuso tra le sue carte e imprigionato alla sua scrivania, ha preso corpo il correntismo. Bisogna riscoprire l’essenzialità dell’impegno associativo come ineliminabile dimensione professionale di un magistrato che ambisca a rendere effettivo il valore dell’autogoverno.
In una intervista al nostro giornale Sabino Cassese ha descritto le Procure come un quarto potere. È d’accordo?
No, non sono per nulla d’accordo, ma raccolgo la preoccupazione. L’azione penale è esercizio, oltre che di un dovere costituzionale, di un potere per necessità fortemente invasivo. Questo non va dimenticato, perché, come è stato detto, la giustizia penale è un male necessario, ed occorre che sia sempre contenuta entro i margini della stretta necessità. Se i giudici adempiono con scrupolo la loro funzione di controllo, il pericolo di un “quarto potere”, di un potere dunque che si distacchi e si autonomizzi dal potere giudiziario, tradizionalmente inteso come “terzo potere”, non prende consistenza. Occorre, pertanto, avere a cuore l’efficienza di Tribunali e Corti, perché la soluzione non può essere ricercata nello spuntare le armi delle Procure, rimedio che sarebbe assai peggiore del male che si vuole evitare, ma nel rafforzare i legittimi controlli.
La proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere promossa dall’Ucpi giace in Commissione Affari Costituzionali della Camera. Sembra difficile solo discuterne. Qual è il suo pensiero su questo?
Sull’argomento si discute da tanti anni, e non si è ancora delineata una proposta che possa tranquillizzare quanti temono che la separazione potrà essere un fattore di squilibrio nel delicato assetto tra i Poteri. Una volta che avremo separato il pubblico ministero, che ne faremo? Lo consegneremo al Governo, al potere politico? Oppure lo renderemo autonomo, inverando proprio quello che il prof. Cassese prospetta come timore, ossia la strutturazione di un “quarto potere”?
È proprio necessario allontanarlo dalla giurisdizione, recidere quel legame di formazione comune e di condivisione di percorsi professionali, pur nella già accentuata separazione delle funzioni, che allo stato definiscono la cornice entro la quale il pubblico ministero può alimentarsi di una cultura delle garanzie? Per questo il progetto sulla separazione delle carriere fatica ad andare avanti. Perché sconta una pericolosa incompletezza del disegno ricostruttivo.
In un documento del 6 gennaio l’Ucpi si rivolge direttamente a Lei per sollecitare un dibattito sulla responsabilità professionale dei magistrati. Come risponde a questo appello? Bisogna chieder conto ai magistrati di inchieste completamente fallite, di accanimenti verso alcuni personaggi politici la cui carriera è stata stroncata?
Sono certo che le Camere Penali non vogliano una responsabilità dei magistrati sulla base di risultati ottenuti o mancati. Sarebbe il peggior servizio alla tutela dei diritti e all’effettività delle garanzie far dipendere il giudizio di professionalità sui magistrati dall’esito dei processi. Si introdurrebbe un fattore di inquinamento dell’attività processuale, perché i magistrati, almeno a volte o in parte, agirebbero nel processo avendo di mira non tanto e non solo la verità e la giustezza delle soluzioni, quanto le sorti delle proprie carriere. Altro discorso è invece dare rilievo a dati abnormi nella conduzione e nell’esito di indagini e di processi. Spingersi al di sotto di questa soglia, con l’illusoria convinzione di sanzionare gli abusi, sarebbe, lo ripeto, prima ancora che una minaccia per i magistrati, un pericolo di compromissione della serenità di giudizio e della indifferenza ai risultati che, fisiologicamente intesa, è l’unica via per dare effettività al principio della neutralità della funzione.
L’anno scorso all’inaugurazione dell’anno giudiziario il pg Salvi disse: mai cercare, nell’azione inquirente «il consenso della pubblica opinione». Eppure il fenomeno continua, con pm che intervengono in prima serata, reclamando attenzione alle loro inchieste, o addirittura lanciando accuse al Ministro della Giustizia. Qual è il suo pensiero su questo?
Il monito del Procuratore generale della Corte di cassazione è sacrosanto. Esistono e convivono, dentro la magistratura, diversi modelli di magistrato, diverse opzioni culturali su come intendere la professione. Le differenze possono essere proficuamente oggetto di un dibattito interno all’Associazione, possono stimolare il confronto di opinioni e di sensibilità, concorrendo ad innalzare la qualità del livello professionale dell’intero Corpo.
La nuova legge sulle intercettazioni sembra aver scontentato un po’ tutti, avvocati e magistrati per vari motivi. Il professor Spangher su questo giornale ha criticato fortemente la ‘pesca a strascico’ e il possibile abuso del trojan da parte dei pm. Lei condivide questa critica?
L’aver scontentato tutti lo registro come un segnale che quella legge ha cercato di incidere effettivamente sull’esistente. Le varie modifiche, intervenute sino al varo del decreto-legge n. 169 del 2019, e la sua legge di conversione, hanno conservato il nucleo della riforma tanto criticata, che provo così a riassumere. Le conversazioni irrilevanti non entrano nel processo; il pubblico ministero deve vigilare affinché non siano riassunte nemmeno nei verbali delle operazioni onde evitare che, a causa della sommaria annotazione, possano essere esposte al pericolo di indebita divulgazione; le parti devono attentamente selezionare il materiale utile a fini di prova, in modo che il resto, tutto il resto, non transiti nel processo e quindi in una dimensione destinata a diventare interamente pubblica. Sul pericolo della cd. pesca a strascico, dico che si verifica soltanto se e quando pubblici ministeri e giudici perdono di vista che la legge consente le intercettazioni a condizione della loro indispensabilità o, in taluni casi, della loro necessità, criteri fortemente selettivi e di garanzia.
Secondo Lei è necessario dover rimettere mano alla riforma della prescrizione, come chiedono i penalisti visto che la riforma del processo penale è in una fase di stallo?
Una riforma che liberi il processo dallo scorrere impeditivo del tempo della prescrizione deve farsi carico di un governo dei tempi ragionevoli del processo. La scelta, apprezzabile, di separare la prescrizione dei reati dal processo, il tempo dell’oblio sul reato dal tempo della memoria del reato che si consuma nel processo, deve affrontare il tema, complesso e rilevante in punto di garanzie e dei diritti dell’imputato come della vittima, dei tempi del processo e del loro controllo.
Esiste il rischio che la normativa emergenziale sui processi penali e civili diventi poi la normalità?
È un timore che ritengo ingiustificato. Il cd. processo da remoto vive e vivrà solo in ragione dell’emergenza pandemica. Ma per tutto il periodo dell’emergenza è soluzione essenziale, perché è l’unica che può coniugare la tutela del diritto alla salute con il bisogno che l’attività giudiziaria non si arresti.
È indubbio che il nostro Paese soffra di un brutto male: il panpenalismo. Esiste un rimedio a questo fenomeno?
Sì, il coraggio della Politica. La Politica deve saper rinunciare alla risposta penale sovrabbondante e quindi alla legislazione meramente simbolica e rassicurante. Di fronte alla complessità dei fenomeni, la scorciatoia è stata la criminalizzazione. Gli esiti non sono incoraggianti. È tempo di cambiare rotta in vista di una seria e robusta depenalizzazione.
Avvocati e giudici sono ormai accomunati dal fatto di ricevere minacce quando difendono quelli che il Tribunale del Popolo chiama “mostri” o quando emettono sentenze impopolari, soprattutto di assoluzione o di riduzione della pena. Qual è l’anticorpo a questo fenomeno?
Il tasso di professionalità di magistrati e avvocati. Il facile e mediatico consenso rassicura gli insicuri, e gli insicuri sono quelli non attrezzati professionalmente. Non bisogna mirare al consenso ma alla credibilità della funzione, mostrandosi forti rispetto alle polemiche contingenti. Quelle passano, il bene della fiducia collettiva nell’istituzione giudiziaria si costruisce e si mantiene con un impegno costante nel tempo.
Durante la prima ondata la magistratura di sorveglianza è stata sotto attacco per alcune concessioni di detenzioni domiciliari per motivi di salute anche di detenuti al 41 bis o in alta sicurezza. Cosa pensa di quanto accaduto?
Penso che non sia stata una bella pagina, ma sono contento di come la magistratura di sorveglianza abbia saputo reggere l’urto delle polemiche, spesso alimentate dalla disinformazione, e abbia proseguito, con serenità e senza disorientamenti, nella sua azione. Sono tanti i motivi di sconforto, ma bisogna anche saper compiacersi del grado di effettiva autonomia e di indipendenza che la magistratura italiana sa dimostrare; come è stato in quella occasione.
La pandemia avrebbe potuto rappresentare un pretesto per riflettere seriamente sul carcere. Così non è stato. Secondo Lei invece c’è bisogno di ripensare il carcere? E se sì, come? Con più carceri o puntando sulle misure alternative?
Il carcere è un tema di riforma che non può essere eluso. Una occasione, qualche anno fa, è stata persa con la mancata attuazione della delega contenuta nella legge Orlando, ma la direzione che anche la giurisprudenza, di legittimità, costituzionale e sovranazionale, indica è netta e chiara. Il carcere non deve essere il luogo della segregazione avvilente, ma una offerta di opportunità risocializzanti, nel pieno rispetto dei diritti dei detenuti, riservata ai casi più gravi. Solo così, ed è stato già dimostrato, si riduce e di molto il rischio di recidiva.
In ultimo non posso non farle questa domanda. Lei è iscritto a Md. Qual è il suo pensiero su quanto sta accadendo tra Md ed Area?
Non credo che ci sia da interpretare quanto è avvenuto. I colleghi che hanno lasciato Md hanno spiegato a sufficienza le loro ragioni e si è aperta una discussione con i dirigenti di Md che è stata portata, attraverso interviste e articoli di stampa, alla pubblica attenzione. Abbiamo avuto modo tutti di leggere e di comprendere. Io non avverto per quegli eventi timori o disagio, perché so che l’intera magistratura associata può contare, quali che siano le scelte dei singoli e dei gruppi, sulla vitalità di una sua componente, individuabile in quell’ambito senza differenze di sigle, particolarmente sensibile ai temi delle garanzie e dei diritti fondamentali, aperta al confronto con la società, formata ai valori costituzionali e consapevole della importanza dell’orizzonte europeo come futuro di crescita democratica della nostra comunità.
Fonte: il riformista.it