I fatti contestati alla direttrice del carcere femminile di Roma: 76 boss favoriti a Reggio Calabria
Grazie a sotterfugi ed escamotage boss e luogotenenti dei clan, incluso il legale ed ex parlamentare che gli inquirenti considerano espressione della direzione strategica della ‘Ndrangheta, sono riusciti ad aggirare le regole e rimanere nel carcere reggino. Dove tutto era possibile e comandavano i “riggitani” grazie ad un patto non scritto con la direzione.
Quello che gli inquirenti considerano uno dei massimi elementi vertice della ‘Ndrangheta. E poi boss di ogni ordine, grado e mandamento. A tutti l’ex direttrice del carcere di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo, ai domiciliari per concorso esterno in associazione mafiosa, ha permesso di violare una delle principali regole della gestione dei detenuti di mafia nelle carceri: chi ha ruoli e potere deve stare lontano dal territorio di provenienza perché troppo alto è il rischio che da dietro le sbarre continui a comandare, troppo spesso è successo che a gregari e affiliati abbia affidato ordini e messaggi.
Ma Maria Carmela Longo non se ne curava. Del resto, per lei «Il problema non è la ‘Ndrangheta da noi, che ‘ndrangheta non è… Se parlo la stessa lingua con tutti, non mi fa niente. A me (i problemi) il danno gli zingari, non la ‘Ndrangheta».
Durissima con marginali, stranieri, “figli di nessuno”, pronta a lasciare senza lavoro, dunque senza sostegno, uno dei detenuti impiegati in cucina che da lì era stato allontanato a causa di una sospetta epatite solo perché di etnia rom «e posso avere una preclusione io – spiegava – ho diritto?», con boss e gregari – emerge dall’inchiesta dei pm Stefano Musolino e Sabrina Fornaro – si è sempre mostrata disponibile. E più e più volte ha concesso loro di rimanere in quel carcere di Reggio Calabria in cui tutto era possibile. Persino che familiari o affiliati al medesimo clan dividessero la cella. O fossero i clan a decidere chi avesse diritto di andare «nel cubicolo», la migliore, la più spaziosa.
Nei quasi due decenni di regno della Longo sul carcere di Reggio Calabria – emerge dalle indagini – tutto o quasi era possibile. Perché la gestione si basava su un «patto non scritto» fra la direzione dell’istituto di pena – dice il pentito Francesco Trunfio – «e i riggitani che hanno contatti con l’amministrazione del carcere e condividono con loro le regole di gestione». E a Reggio era permesso ricevere senza problemi o patemi whisky, salmone, cioccolata «bianca, nera, voglio dire fondente, perché io facevo sport», racconta il boss pentito Stefano Liuzzo, e persino dolci della pasticceria preferita, opportunamente confezionati per evitare che si rovinassero durante il trasporto. L’assegnazione al lavoro dentro o fuori dal carcere poi, veniva decisa dai boss, tra i quali encomi e relazioni positive venivano distribuite ad hoc e per agevolare scarcerazioni o alleggerimenti del regime di detenzione. E sotto dettatura funzionavano anche i trasferimenti da altri istituti di pena per impegni di giustizia.
Per legge, un detenuto trasferito per un’udienza o altro impegno di giustizia ad un carcere diverso da quello a cui è stato assegnato, ci può rimanere solo per la durata dell’incombenza processuale, a meno che non ne abbia un’altra entro trenta giorni. Ma per i boss di rango questo non succedeva. «Anche se le udienze si distanziano di più di 30 giorni l’una dell’altra, i detenuti restano comunque a Reggio, per mesi interi. I rientri avvengono solo a dicembre o ad agosto perché vengono sospese le udienze. Ma talvolta non ci sono stati nemmeno i rientri ad agosto, con udienze fissate a settembre e ottobre». Bastava inventare un nuovo impegno di giustizia, o «fare la gnorri» come più volte ha detto intercettata la Longo.
Escamotage numero due: «false perizie, o far sembrare che il detenuto abbia iniziato dei percorsi a Reggio» spiega sempre Trunfio, che dietro nelle sbarre nella città calabrese dello Stretto ci è stato abbastanza da poter parlare con cognizione. Ed è in grado anche di fare esempi precisi. «Michele Bellocco è rimasto a Reggio Calabria, nonostante fosse promotore di associazione mafiosa, e noi ci siamo sorpresi perché era uno della piana. Credo sia stato l’unico caso in due anni in cui sono stato là che uno della Piana sia rimasto più tempo». Per lo più, aggiunge, certi trattamenti di favore erano riservati ai «riggitani». Ma nell’elenco accertato dal Nic, il nucleo investigativo carcerario, ci sono boss di rango di tutti i mandamenti e di tutti i clan. Gli agenti ne hanno contati ben 76.
Fra loro c’erano gli Alampi, Carmela Alampi, Domenico Alati, Antonio Quattrone, Antonino Araniti dello storico omonimo clan di Sambatello, uomini delle famiglie di Villa San Giovanni, come Pasquale Bertuca e Alfio Liotta, una legione di arcoti, Francesco Caponea, Stefano Costantino, Michele Crudo, che secondo i pentiti era il vero direttore del carcere, Emilio Angelo Frascati, Fabio Vittorio Minutolo, Gianfranco e Sebastiano Musarella, Bruno Antonio Tegano e persino il figlio piccolo di don Paolino De Stefano, Dimitri. E poi i Caridi-Borghetto-Zindato, dal capo Santo Caridi, a Natale Cuzzola, Giuseppe Laurendi, Mico Tattoo Sonsogno, Domenico Ventura, Gaetano Andrea Zindato e Caterina Zindato, e poi Serraino, con il patriarca Demetrio Serraino, Fabio Antonio Giardiniere e Maurizio Cortese, come pure i Rosmini, con Domenico e Mario Vincenzo Stillitano. Qualche eccezione si faceva anche per selezionatissimi elementi di rango dei clan della Piana, come Domenico ed Emanuela Bellocco e Giovanni Battista Cacciola. Del resto, ha spiegato Trunfio, a Reggio i pianoti non governavano ma contavano. « Il reparto Cariddi è occupato da detenuti reggini, l’abbiamo sempre chiamato ‘dei riggitani’ come Condello, De Stefano ecc (il controllo era di Michele Crudo). Il reparto Scilla invece era della piana di Gioia Tauro».
Dell’impegno della direttrice, investigatori ed inquirenti ne hanno certezza. L’hanno ascoltata – più e più volte – millantare con il personale che le sollecitava il trasferimento inesistenti impegni di giustizia o inventare inesistenti interrogatori, l’hanno sentita ordinare ad un’agente della penitenziaria di verificare se ci fossero udienze programmate a breve, sottolineando «ho l’impressione che abbia ancora qualche altro interrogatorio perché ha avuto tante ho il riesame». E poi comandare «controllate il riesame … di telefonare al riesame che di sicuro c’è».
Ma per il gip Domenico Armaleo che ha ordinato i domiciliari per la Longo, a dissipare ogni dubbio è la conversazione registrata fra la Longo e l’avvocato di Romeo. Perché è lei – emerge in modo chiaro – a dettare i tempi di presentazione dell’istanza di Riesame per evitare lo spostamento a Tolmezzo, ma senza dimenticare di rassicurarlo: «anche se non risulta niente al riesame … eh! Vuol dire che non ci hanno tempo (di trasferirlo)». E quando nel giro di 24 ore il legale si ripresenta per comunicare l’avvenuto deposito dell’istanza, Longo si affretta a contattare l’Ufficio Matricola per chiedere al personale di verificare la data di udienza del Romeo, come se nulla sapesse. «Eh si per Romeo sembra che oggi hanno prodotto la libertà ehh istanza ricorso … eh possiamo controllare? Telefoniamo … eh!» la sente dire chi la intercetta. «No comment, è davvero sconcertante – tuona il gip – la Direttrice di un Istituto Penitenziario si siede a tavolino con il difensore di un detenuto del calibro del Romeo per pianificare una strategia strumentale ad impedire che questi, come prescrive la legge, faccia rientro presso la casa circondariale di provenienza»
Un “modus operandi consolidato” commenta il giudice che ha autorizzato l’arresto della funzionaria, sempre sensibile – emerge dall’inchiesta – alle istanze degli uomini di potere e dei loro familiari. È successo anche con Maurizio Cortese, elemento di rango del banco nuovo dei Serraino, rimasto tanto tempo a Reggio Calabria da attirare l’attenzione anche del Dap, che con una nota ha chiesto conto della cosa alla direttrice. Lettera rimasta lettera morta, ovviamente. «È evidente – scrive il gip – che non ci troviamo al cospetto di un’episodica violazione della regola dei trenta giorni, quanto piuttosto di un collaudato modus operandi che non viene ad essere scalfito né dalle legittime rimostranze degli agenti della Polizia Penitenziaria ( come accaduto per il detenuto Paolo Romeo), né dalle spiegazioni richieste dal Dap in merito alla permanenza sine titulo di un detenuto (Maurizio Cortese)». Un metodo – sostengono i magistrati – che ha permesso ad un’alta funzionaria dello Stato di agevolare la ‘Ndrangheta in tutte le sue manifestazioni.
Fonte lacnews24.it
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