Diversi penitenziari italiani hanno vietato agli Agenti di indossare le mascherine: “Creano allarmismo”. E a Rebibbia gli operatori devono lavare i dispositivi usa e getta perché non bastano per tutti. I sindacati: “È il festival dell’improvvisazione”
“La settimana scorsa il comandante e il direttore ci avevano vietato l’uso della mascherina, in quanto rischiava di far preoccupare i detenuti nel cuore e perché non avevano una disposizione di servizio in merito”.
A scrivere è un Agente del carcere di Pesaro. Nel penitenziario, poi, è arrivato l’ok ad indossare i dispositivi di protezione. Ma ora il problema è che ne sono state acquistati “solo 150 e che sono già finiti”. Mascherina sì o mascherina no? Nelle carceri italiane in questi giorni non si parla d’altro. Dopo le rivolte delle scorse settimane ora a tenere banco è la questione della salute di agenti e detenuti, ma anche il timore che possano scoppiare nuovi disordini.
Per questo anche nella casa di reclusione di Massa il comandante ha fatto togliere le mascherine al personale che le indossava perché “o la portano tutti o nessuno, altrimenti si creano allarmismi”. Stesse istruzioni sono state date nel carcere di Torino, dove una disposizione interna ha imposto agli agenti di non usare i dispositivi di protezione all’interno della casa circondariale, per evitare “di creare allarmismo nella popolazione detenuta, con il rischio di innesco di tensioni all’interno dell’istituto”. “Ciò vanificherebbe – continua la circolare – l’enorme sforzo profuso da tutti gli operatori penitenziari per arginare e tranquillizzare la popolazione detenuta nella scorsa settimana”.
Con buona pace, però, della sicurezza degli operatori, che si chiedono, ad esempio, perché le mascherine siano obbligatorie al reparto nuovi giunti e casellario, dove i detenuti vengono perquisiti, ma non possano essere indossate quando i reclusi devono essere condotti in udienza. Anche in questo caso, infatti, è necessaria la perquisizione. Disposizioni simili sono state date nel carcere di Verona, dove la direzione ne avrebbe vietato l’utilizzo, e in quello di Trani, dove stando alle informazioni diffuse dal sindacato di polizia penitenziaria OSAPP, i dispositivi sarebbero disponibili ma gli operatori non potrebbero usarli. Ad Imperia, invece, il personale che le indossa deve mettere nero su bianco che lo fa “sotto la propria responsabilità ”, mentre a Sanremo sono stati proprio i detenuti a chiedere che gli operatori fossero muniti delle opportune protezioni.
“A Rebibbia gli agenti hanno fatto sapere che le mascherine monouso devono essere lavate con l’acqua calda e riutilizzate”, denuncia Leo Beneduci, segretario generale della stessa organizzazione sindacale. “Insomma, in alcune carceri le mascherine non sono state distribuite, in altre non sono state consegnate in numero sufficiente, in altre ancora le hanno vietate, qualcuno ha detto di lavarle e nella sartoria del carcere di Massa si sono messi persino a produrle – spiega Beneduci al Giornale.it – è il festival dell’improvvisazione e il ministro fa finta di niente”.
“Così, però, si mette a rischio la salute degli uni e degli altri”, attacca il sindacalista, che ha messo nero su bianco le lamentele degli agenti in una lettera indirizzata al commissario del governo per l’emergenza coronavirus, Domenico Arcuri. “Il problema – si lamenta – è che sul territorio ognuno fa quello che vuole, non c’è coordinamento e non sono state date disposizioni immediate, tranne una circolare di per sé confusa”. Si riferisce alle disposizioni del direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che impongono, fra le altre cose, che gli “operatori di polizia penitenziaria in servizio presso le strutture penitenziarie, in quanto operatori pubblici essenziali, debbano continuare a prestare servizio anche nel caso in cui abbiano avuto contatti con persone contagiate”, salvo stare a contatto con i detenuti.
Questo per garantire “ordine e sicurezza pubblica”. Condizioni sempre più difficili da assicurare secondo gli operatori impegnati la scorsa settimana a sedare le rivolte nei principali istituti penitenziari italiani. “L’epidemia di coronavirus si è diffusa in tutto il mondo ma solo in Italia le carceri sono state messe a ferro e fuoco – tuona il sindacalista – forse perché il sistema era inefficiente anche prima dell’emergenza sanitaria”. “La colpa – aggiunge – è di chi percepisce centinaia di migliaia di euro l’anno per non fare nulla”.
Le misure contenute nel decreto “Cura Italia”? Per Beneduci sono “risibili”. I venti milioni di euro stanziati per ripristinare la piena funzionalità degli istituti danneggiati “sono un premio ai detenuti che si sono resi protagonisti dei disordini”, attacca. “La previsione dei domiciliari con meno di 18 mesi di pena residua – prosegue – già esiste, il problema è che spesso non può essere applicata perché i detenuti non sono in possesso di un domicilio valido”. Altro che “svuota carceri”. “Il provvedimento – continua il sindacalista – potrà funzionare per gli istituti minori ma assai meno per i grandi penitenziari”. “Inoltre – sottolinea – i detenuti che hanno alzato le barricate, quasi tutti stranieri, fatta eccezione per il caso di Foggia, non sono stati neppure puniti, ma soltanto trasferiti altrove”.