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Il “reato di MOBBING” sul lavoro

Fare mobbing nei confronti di un dipendente è sempre illegittimo. In alcuni casi, tuttavia, oltre ad essere illegittimo, questo comportamento costituisce anche un reato.

Il mobbing, come vedremo più nel dettaglio nel presente articolo, è una strategia posta in essere nell’ambito aziendale per distruggere la dignità umana e professionale di un dipendente, che viene preso di mira, e per indurlo alla fine di questo percorso ad andarsene rassegnando le proprie dimissioni. Il mobbing è quindi in ogni caso un comportamento illegittimo in quanto viola la dignità umana e professionale del dipendente e può anche provocare seri danni alla sua salute. In certi casi, però, il mobbing va oltre la dimensione dell’inadempimento contrattuale. Ciò avviene quando le condotte poste in essere dal datore di lavoro o dai colleghi costituiscono condotte criminose ai sensi della legge penale. In questi casi sussiste il mobbing come reato.

E’ chiaro che la questione non è solo di definizioni: ciò che cambiano profondamente sono le conseguenze. In caso di reato infatti il datore di lavoro non rischia solo il risarcimento del danno che, in ogni caso, deve essere riconosciuto alle vittime di mobbing ma rischia molto di più con la possibilità di dover scontare delle pene che variano a seconda del tipo di reato commesso nell’esecuzione della strategia di mobbing. Ma andiamo per gradi.

Cos’è il mobbing?

Il mobbing è un fenomeno tristemente diffuso che caratterizza gli ambienti di lavoro.

Il mobbing non è un singolo comportamento posto in essere dal datore di lavoro verso il dipendente, come spesso si è portati a ritenere, ma è un piano, una strategia a lungo termine all’interno della quale si situano tutta una serie di atti, piccoli o grandi, che man mano, demoliscono la dignità umana e personale del dipendente, lo isolano nel contesto aziendale, gli rubano l’autostima, lo esautorano del suo ruolo in azienda. Il tutto con un obiettivo finale predeterminato: spingere il lavoratore a gettare la spugna e dimettersi.

E’ dunque sbagliato pensare, come spesso avviene, che il dipendente che viene insultato dal datore di lavoro è vittima di mobbing. Oppure che il datore di lavoro che adibisce il lavoratore a mansioni inferiori alle proprie sta compiendo mobbing. Nessuna di queste condotte, da sole, possono costituire mobbing. Insieme, invece, possono esserlo a patto che perdurino nel tempo e siano dunque sistematiche e che siano indirizzate al fine predeterminato: estromettere il lavoratore sgradito.

A titolo di mero esempio, possono essere condotte che fanno parte del mobbing, considerate nel loro insieme, le seguenti:

  • adibizione a mansioni inferiori del dipendente;
  • esclusione del lavoratore da eventi e comunicazioni aziendali;
  • sottrazione di strumenti di lavoro al dipendente;
  • umiliazioni, più o meno dirette, rivolte al dipendente;
  • insulti e ridicolizzazione del dipendente;
  • atti di violenza e prevaricazione fisica.

Come detto, per esserci mobbing, tutti questi atti devono durare nel tempo, per almeno sei mesi ed essere tesi all’estromissione del dipendente dal contesto aziendale.

Mobbing come inadempimento contrattuale

Il mobbing rappresenta, prima di tutto, un inadempimento contrattuale. Il datore di lavoro che mobbizza il dipendente o che non vigila affinché non vi siano episodi di mobbing in azienda, infatti, sta violando uno dei suoi principali obblighi contrattuali che gli derivano dal contratto individuale di lavoro, ossia l’obbligo di protezione della salute e della sicurezza del lavoratore [1].

La legge impone al datore di lavoro di tutelare la salute e la sicurezza dei dipendenti.

Se, invece, il datore di lavoro organizza in prima persona, o tollera che altri pongano in essere, atti di prevaricazione continuativi che costituiscono mobbing non può di certo dirsi che stia rispettando l’obbligo di sicurezza che grava su di lui.

Il mobbing, infatti, lede la salute del dipendente sia sul piano fisico che psichico provocando importanti patologie come:

  • malattie depressive, stress, ansia, disturbi di panico;
  • sociopatia, isolamento, perdita di autostima;
  • malattie dell’apparato cardiaco e vascolare, ipertensione arteriosa, aritmie;
  • disturbi allo stomaco e all’intestino;
  • malattia legate al sistema immunitario.

Come ogni inadempimento contrattuale, anche il mobbing da diritto a chi ne è vittima a chiedere il risarcimento del danno da mobbing al datore di lavoro.

Per ottenere il risarcimento del danno il dipendente dovrà essere in grado di fornire la prova di alcuni elementi.

Innanzitutto dovrà provare che c’è stato il mobbing, dimostrando con documenti o testimonianze i singoli episodi di prevaricazione che, letti insieme, costituiscono mobbing.

In secondo luogo, dovrà provare che c’è stato un danno. Ciò sarà possibile producendo una perizia medico-legale che certifica come il mobbing abbia provocato una lesione permanente all’integrità psichica e fisica del lavoratore (il cosiddetto danno biologico). Questo danno nella perizia si esprime in una percentuale che può essere trasformata in una somma di denaro, in base all’età del danneggiato, utilizzando delle apposite tabelle elaborate dal tribunale di Milano.

Il danno patrimoniale, invece potrà essere dimostrato depositando scontrini, fatture, copia di bonifici effettuati per pagare prestazioni mediche, acquisto di farmaci, etc. che siano conseguenza dello stato di salute indotto dal mobbing.

Mobbing come reato

Oltre a costituire un inadempimento contrattuale, che espone il datore di lavoro al risarcimento del danno al dipendente, il mobbing sul lavoro può essere anche reato.

In particolare, ciò dipende dalle singole azioni che, nel loro insieme, vanno a costituire il mobbing. Questi singoli atti, infatti, in alcuni casi sono, presi singolarmente, leciti. In altri casi, invece, già da soli, costituiscono fattispecie che la legge qualifica come reato.

In particolare, molto spesso, gli atti di mobbing possono consistere in azioni che rientrano nel concetto di reato di lesioni personali [2].

Di recente, si è espressa sul punto anche la Corte di Cassazione [3]. Nel caso sottoposto al giudizio della Suprema Corte, un datore di lavoro era stato accusato di aver provocato al dipendente, vittima di mobbing, una patologia psichiatrica che era stata il frutto di tutta una serie d angherie e altri comportamenti persecutori e vessatori nonché di ingiurie, continui procedimenti disciplinari, uso smodato del potere direttivo, etc.

La Cassazione chiarisce, nella sentenza, che nel reato di lesioni personali colpose la prescrizione comincia a decorrere dal momento dell’evento e quindi, nel caso esaminato, dal momento in cui è insorta la malattia psichiatrica conseguente al mobbing subito.

Chiarito come conteggiare la prescrizione nel caso di lesioni personali da mobbing, la Cassazione si sofferma sulla prova delle condotte lesive che secondo il dipendente, sono state poste in essere dal datore di lavoro. Su questo aspetto la Cassazione ritiene fornita la prova di queste condotte poiché nel processo di merito sono emersi i seguenti fatti:

  • contestazioni disciplinari subite dal dipendente;
  • condizioni sanitarie del dipendente;
  • testimonianze dei colleghi del lavoratore.

Tutte queste prove, secondo la Corte, hanno dimostrato che vi fosse un forte disagio del dipendente nell’ambito dell’ambiente professionale.

Dopo essersi occupata della prova delle lesioni, la Corte passa in rassegna un altro elemento fondamentale nel reato di lesioni personali, ossia, il nesso di causalità tra le condotte del datore di lavoro e le lesioni lamentate dal lavoratore. Occorre, in sostanza, rispondere alla seguente domanda: chi ci dice che la depressione del dipendente sia proprio il frutto delle condotte del datore di lavoro? Come escludere che non vi siano altre cause ad aver determinato la depressione? E’ infatti evidente che il nesso causale tra condotta del datore di lavoro e lesioni personali può interrompersi se subentra un altro fattore scatenante che può avere determinato, da solo o insieme alle condotte del datore di lavoro, la malattia psichiatrica.

Sotto questo profilo, la Corte sottolinea che una volta che sia stata ravvisata l’astratta riferibilità causale delle patologie psichiche (che costituiscono lesioni personali) alle condizioni cui la persona offesa era sottoposta da parte del datore di lavoro, la prova del nesso causale c’è a patto che non sia stata offerta:

  • la dimostrazione di ipotetici decorsi casuali alternativi: si pensi ad esempio al caso in cui si dimostra che la genesi della depressione del dipendente è genetica e non dipende dall’ambiente di lavoro;
  • eventuali fattori causali sopravvenuti, idonei a interrompere il nesso eziologico: si pensi al caso in cui il dipendente avesse subito un gravissimo lutto. Questo episodio avrebbe potuto costituire anch’esso un fattore scatenante della depressione, al pari del mobbing da lavoro.

Mobbing come reato: cosa rischia il datore di lavoro?

Il datore di lavoro che viene condannato per lesioni personali da mobbing rischia di subire un procedimento penale ed essere condannato ad una pena.

La legge stabilisce che chi procura ad altri, con la propria condotta, delle lesioni personali è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non ricorre nessuna delle circostanze aggravanti il delitto è punibile a querela della persona offesa. Ciò significa che è direttamente il dipendente a doversi attivare sporgendo denuncia/querela contro il datore di lavoro. Ciò può essere fatto semplicemente recandosi presso la più vicina stazione dei Carabinieri o della Polizia di Stato.

Ovviamente, oltre al reato, il datore di lavoro rischia di dover versare al dipendente il risarcimento del danno da mobbing che deriva, come abbiamo detto, dal fatto che il mobbing è anche un inadempimento contrattuale. Per far valere il risarcimento del danno da mobbing il dipendente potrà costituirsi parte civile direttamente nel proesso penale che vede il datore di lavoro come imputato per lesioni personali oppure avviare un autonomo procedimento civile.

 

 

 

Fonte: laleggepertutti.it

Redazione OSAPPoggi

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