«La detenzione, secondo i costumi calabresi, comporterebbe il rispetto di regole non scritte che limitano ancor di più la libertà personale». E sono regole che vanno al di là dell’ordinamento penitenziario, regole che impongono gli stessi detenuti, in un carcere vero (che non è, parafrasando il collaboratore di giustizia Raffaele Moscato, un «circolo ricreativo» come sarebbero invece altre case circondariali) ovvero quello di Vibo Valentia. Chi parla è un detenuto siciliano, che si lascia andare ad una serie di dichiarazioni spontanee con il commissario capo della Polizia penitenziaria Domenico Montauro, ovvero l’ufficiale di pg che in sinergia con il Nucleo investigativo dell’Arma di Vibo Valentia firmerà il segmento d’indagine acquisito al procedimento Rinascita Scott grazie al quale si è fatta luce sul «locale ’ndranghetista del carcere», ovvero Revolution.
Un microcosmo oscuro
La Polizia penitenziaria, in questo contesto, svolge un ruolo estremamente prezioso anche sul piano investigativo. E l’informativa che il commissario capo Montuoro e il maggiore Valerio Palmieri vergano e inoltrano al pool antimafia di Nicola Gratteri è un po’ la summa di un lavoro fin qui ignorato dalle cronache e dalla storia. Gli agenti sequestrano pizzini, nuove formule di affiliazione, scoprono perfino l’esistenza di gradi di ‘ndrangheta sconosciuti, come la dote di «Cavaliere di Cristo».
L’Alta sicurezza è un microcosmo nel quale si ravvisa la «specularità delle dinamiche costituitesi all’esterno delle strutture penitenziarie nei territori dalla rilevante presenza di delinquenti legati tra loro da vincoli associazionistici». Il «locale», ovvero la struttura mafiosa organizzata in seno al carcere di Vibo, era quello guidato da Peppone Accorinti e costituito da un nutrito gruppo di affiliati di rango più o meno elevato. Il modello, però, si riproporrebbe – è scritto nell’informativa Revolution – «in gran parte delle strutture penitenziarie esistenti nel territorio italiano».
L’esercizio del potere che non è quello dello Stato «in un ambiente limitato quale una sezione detentiva – agli atti di Rinascita Scott – è indirizzato a tutti gli altri ristretti che si troveranno, oltre ad essere privati della loro libertà personale, ad un’ulteriore privazione nella scelta delle condotte da tenere».
Pertanto – e qui ecco un passaggio illuminante, anche in ragione di quello che sarebbe avvenuto molti mesi dopo, con lo scandalo che avrebbe travolto la direttrice del carcere di Reggio – «all’interno di questa prospettiva è evidente e palese come il Direttore della struttura penitenziaria e l’intero complesso amministrativo, in cui è compresa la Polizia penitenziaria, possano essere indubbiamente malvisti e considerati un forte ostacolo per l’organizzazione che, come vedremo, non riesce ad accettare che sia lo Stato a garantire le regole ed opererà per imporre le proprie».
Le parole dei boss
Ed una frase pronunciata nel 2013 per incitare i detenuti alla rivolte da Bruno Emanuele – ovvero il chirurgo della lupara, il boss delle Preserre che con furia stragista decapitò il clan Loielo – fino ad oggi sarebbe rimasta così d’attualità: «Ricordate che è il detenuto che deve fare il carcere». Tutte uguali eppure tutte diverse le carceri. La Penitenziaria, il 15 maggio 2017, capta una conversazione importante. Parla Peppone Accorinti, il capo-locale del carcere. Racconta come il carcere di Cosenza sia «una favola», mentre un sodale replica spiegando cosa sia invece Vibo: «È difficile qua». Era così duro anche a Cosenza – si legge nell’informativa che sintetizza le parole di Accorinti – dove però la condizione sarebbe migliorata solo «dopo che hanno ammazzato a coso, quando hanno ammazzato Cosmai». Sergio Cosmai, ucciso dalla ‘ndrangheta il 15 marzo 1985.
Il dopo Cosmai
Peppone racconta un particolare che se fosse vero sarebbe inquietante. Parla come se fosse stato egli stesso detenuto a Cosenza (e di questo non abbiamo riscontro) subito dopo l’omicidio Cosmai: «Ammazzano a quello (ride) dopo una quindicina di giorni, venti, passano questi, ne arriva un altro, ha chiamato e disse che ci vuole, che vuole tre persone, tre-quattro persone che ci voleva parlare. Hanno chiamato la buonanima dello zio Micu, il padre di Peppe (Domenico Mancuso della cosiddetta “dinastia degli undici”, padre del superboss Peppe detto ‘Mbrogghia, ndr). Lui dice: “Mancuso…”. Dice: “Facciamoci due passi”…».
Segue un’intercettazione poco pulita, con alcuni tratti incomprensibili, che l’informativa agli atti di Rinascita sintetizza così: «Accorinti fa riferimento al fatto che proprio dopo l’efferato delitto il nuovo direttore abbia individuato tre figure criminali di spessore al fine di coadiuvarlo nella gestione del penitenziario collocando ogni detenuto all’interno di differenti padiglioni al fine di mantenere l’ordine interno».
fonte: lacnews24.it