Nelle Rems si sta meglio, ma Gianluigi deve ancora prendere confidenza con la libertà.
Gianluigi – incontrato da L’Espresso – è uno degli oltre cinquecento pazienti che oggi sono internati nelle Rems, la nuova conversione degli ospedali psichiatrici giudiziari. Questa parte di realtà in Italia è una di quelle di cui non andare fieri, una di quelle parti del sistema pubblico di cui si fa fatica a parlare, di cui se ne evita il passato. Le Rems di oggi – letteralmente residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza – sono case riabilitative che si concentrano sulla cura del paziente piuttosto che la detenzione in regime di sicurezza. E’ stato sempre così? Ovviamente no, le Rems sono solo l’ultimo capitolo di un processo travagliato che nasce più di centocinquanta anni fa e raggiunge un punto di svolta solo 5 anni fa.
L’ipotesi di costruire una soluzione diversificata per chi commette un reato e viene giudicato in stato di infermità mentale – l’individuo che presenta alterazioni di una o più funzioni psichiche – si fa strada alla fine dell’ottocento. In quegli anni alcuni soggetti della scuola penale, iniziarono a pensare ai rei folli ed ai folli rei – i primi ritenuti malati mentali successivamente al reato, i secondi ritenuti in stato di malattia mentale nell’atto di compiere il reato, o addirittura spinti dalla malattia mentale a compiere il reato – come a soggetti che avessero bisogno di un percorso diversificato che aggiungesse alla detenzione, la cura della mente.
Ed è qui che iniziano a costruirsi gli elementi necessari per la creazione dei manicomi criminali. I primi manicomi per criminali – i manicomi esistevano già – nascono in Inghilterra già prima della fine dell’ottocento, questi però erano pensati per ospitare i folli rei prosciolti – di solito i criminali con disturbi mentali venivano sempre prosciolti – quindi si preoccupavano di porre freno solo alla componente mentale. In un secondo momento di pari passo con l’istituzione di un diritto che iniziava a giudicare i criminali con la loro componente di malattia mentale, si iniziò a pensare, nel ideare queste strutture, anche alla componente penale. La prima vera regolamentazione del 1889, il codice Zanardelli, stabilì: “ in caso di reato commesso in stato di infermità mentale tale da togliere la coscienza o la libertà dei propri atti, l’individuo, seppure prosciolto perché non punibile, poteva essere consegnato all’autorità di pubblica sicurezza, laddove il giudice ne avesse stimato pericolosa la liberazione”. Il punto è che fino a questa data si trattava di “semplici manicomi”, strutture cioè in cui si era internati solo per la componente mentale, questo fece si che persone pericolose socialmente si trovarono internate con persone normali, senza alcuna separazioni, con le normali conseguenze che ne potevano derivare.
Italia – Nascono i primi manicomi giudiziari
I primi manicomi giudiziari – in Italia assumono questo nome – nascono tra il 1870 e la fine del secolo. Inizialmente alcuni codici disciplinavano molto superficialmente il fenomeno e la prima testimonianza arriva da Aversa, dove nel 1976 il medico Gaspare Virgilio, nella sezione dei maniaci, riferisce di aver ricevuto in affidamento diciannove detenuti impazziti. Il problema, in questo momento storico, era sul decidere i confini della malattia mentale nell’atto criminale. In questa direzione Cesare Lombroso provo ad enunciare una sua distinzione. Per lui erano cinque le categorie che dovevano entrare nel manicomio giudiziario: “ Tutti i carcerati impazziti con tendenze pericolose, tutti gli alienati sottoposti a inquisizione giudiziaria sospesa per la riconosciuta alienazione, tutti gli imputati di crimini strani senza un movente chiaro, chi ha commesso il reato in stato di epilessia psichica, quanti furono spinti al delitto da una evidente infermità”. Nel 1975, oltre cinquanta anni dopo la creazione di più di dieci manicomi criminali, con la riforma dell’ordinamento penitenziario, i manicomi criminali entrarono ufficialmente nel sistema penale italiano.
Nello stesso 1975 si comprende l’inefficacia del manicomio criminale ed interrogandosi sul processo per portare gli stessi ad una funzione attiva nella riabilitazione del reo folle, si decide di cambiare il nome. Nascono, o meglio si convertono, in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. In Italia sono cinque: Caserta, Messina, Mantova, Firenze, Napoli, Reggio Emilia. Non veniva fissata una durata massima per l’internamento dei pazienti, non veniva fissata una “pena da scontare”. La fine della detenzione nel manicomio avveniva solo quando il magistrato di sorveglianza dichiarava che l’individuo non era più pericoloso socialmente.
Tra questa decisione e gli anni che l’individuo passava all’interno del manicomio, il baratro. Questo forniva l’alibi per cui la maggior parte degli individui rimaneva in manicomio a vita. I metodi di cura erano assenti e gli individui venivano trattati come “matti in regime di detenzione”. Gli unici farmaci che si prescrivevano erano veicolati al tenere gli individui in uno stato di calma continua. Non c’era nessuna affinità con le funzioni degli ospedali psichiatrici e i manicomi criminali finivano per isolare l’individuo definitivamente dalla società. I manicomi criminali non avevano funzioni riabilitative. Lo scopo dei manicomi criminali prima e degli Opg dopo era la detenzione di un “folle criminale”.
Nonostante nel 1975 gli Istituti di cura e detenzione prendono il nome di OPG, continuano a rispondere solo ed esclusivamente al Ministero di Grazia e Giustizia e non compare minimamente il Ministero di Sanità. Insomma, pochi cambiamenti, ma nulla di fatto. L’offender continua ad essere trattato come detenuto da tenere in stato di calma e non si accenna a processi riabilitativi, se non in minima parte con alcune terapie psichiatriche.
Una commissione d’inchiesta nel 2011 farà chiudere gli Opg
Nel 2011 viene formata una Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale che effettua diversi blitz all’interno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Gli OPG oggetto d’indagine sono sei: Castiglione delle Stiviere, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Napoli, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto. Quello che emerge dai blitz è sconcertante: pareti scrostate, pipì in diversi corridoi, letti di metallo arrugginiti, lenzuola ingiallite e strappate, fili elettrici scoperti in diverse stanze, freddo e solitudine. “Si rimane abbandonati per anni in queste strutture, c’è chi nel 1992 ha fatto una rapina da settemila lire fingendo di avere una pistola in tasca ed è ancora rinchiuso. Non possiamo tollerare che esseri umani vengano trattati in questo modo” ha raccontato il Senatore Marino, in prima linea nel 2011 per chiudere gli OPG. Sempre il senatore Marino, nel 2010, prima del blitz, in un’intervista a Quotidianosanità raccontava: “ Nel corso dei sopralluoghi ci siamo resi conto , e personalmente con un certo sbigottimento, che persone non condannate, ma internate in quanto ritenute socialmente pericolose pur non trovandosi più in questo stato, non solo non vengono dimesse per ricevere dei servizi esterni di assistenza psichiatrica, ma non la ottengono nemmeno all’interno dell’OPG. Ad esempio, nella struttura di Aversa, che accoglie 300 degenti, abbiamo trovato un solo medico che poteva garantire appena un’ora di assistenza psichiatrica al mese. Il peggio del peggio: sono ingiustamente internati in un luogo dove dovrebbero essere curati senza però accesso alle cure”.
Il 20 luglio del 2011 esce la relazione finale sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli Ospedali psichiatrici giudiziari. In particolare si legge: “ tutti gli Opg presentano un assetto strutturale assimilabile al carcere o all’istituzione manicomiale, totalmente diverso da quello riscontrabile nei servizi psichiatrici italiani. La dotazione numerica del personale sanitario appare carente in tutti gli Opg visitati rispetto alle necessita` clinico-terapeutiche dei pazienti affidati a tali istituti” – e ancora – “ le modalita` di attuazione osservate negli Opg lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignita` della persona, sia per quanto attiene alle azioni meccaniche, sia talora per i presidi psicofarmacologici, di uso improprio rispetto alla finalita` terapeutica degli stessi”.
Di questo problema avevamo parlato all’inizio, collocandolo attorno agli anni 1930/1940 e poi ’70/’80 – il problema non era scomparso, tutt’altro, semplicemente gli anni di riferimento sono i momenti in cui i problemi venivano evidenziati – e di nuovo, nel 2011 non era cambiato nulla, gli OPG e prima ancora i manicomi criminali erano carceri in cui si pensava alla detenzione e non alla riabilitazione.
Dopo la relazione del 2011 qualcosa cambia. Viene messa nero su bianco una data, il 31 marzo 2013, il termine ultimo per la chiusura di tutti gli Opg in Italia. La chiusura rallenta per questioni burocratiche, ma alla data del 31 marzo 2015 in Italia sono chiusi tutti gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Ed ora?
R.E.M.S, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Questa è l’ultima evoluzione di un disegno nato più di centocinquanta anni fa. Le Rems nascono da una collaborazione – finalmente – tra il Ministero di Giustizia e il Ministero della Salute. Se il problema principale – oltre a quelli di contorno – era il focalizzarsi sulla detenzione piuttosto che sulla malattia, con le Rems c’è il punto di svolta; l’attenzione in questi istituti è primaria alla malattia psichiatrica piuttosto che al reato e alla pena. La gestione delle Rems è di esclusiva competenza del Sistema Sanitario mentre il perimetro delle strutture è affidato a servizi di vigilanza e di sicurezza. Il problema delle Rems, oggi, è il numero dei posti letto. Ogni Rems può ospitare al massimo 20 posti letto. A regolamento di ciò, la legge 81/2014 introduce che “ dette strutture esplichino funzioni terapeutico riabilitative e socio riabilitative a favore di persone affette da disturbi mentali, autrici di reato e che la magistratura ha stabilito essere socialmente pericolose, dietro parere espresso da un perito psichiatra”
Le REMS oggi funzionano?
Difficile rispondere a questa domanda. Le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sono aperte ufficialmente da 5 anni. Oggi in tutta Italia sono 23 con una proiezione di 30 nei prossimi anni. Nelle Rems saranno ospitati coloro giudicati “incapaci di intendere e volere”. Qualcosa si è mosso anche dal punto di vista del tempo di permanenza. Se tra i principali problemi di manicomi criminali ed Opg compariva la “pena infinita”, per le Rems è stato stabilito un tempo massimo di internamento che non può essere superiore alla pena prevista per il reato. La legge 81 stabilisce che le Rems devono essere organizzate non come carceri, ma come strutture sanitarie, logica che pone al centro la riabilitazione. L’ospite nelle Rems, si legge nella presentazione delle strutture, è un paziente proiettato verso un futuro reinserimento nel tessuto sociale e le cure sono volte a questo. Ci sono diverse testimonianze in rete, trovo quella di Mario, internato in una Rems che ai microfoni del Fatto dice :”Sono internato da febbraio. Penso che rimarrò altri tre o quattro mesi. Sta andando tutto bene. Questa è la sanità, non ha niente a che vedere né con le Opg né con il carcere. Noi usciamo, ci portano in giro, stiamo con i nostri famigliari”.
Ad una seconda analisi, navigando tra le diverse attività attive nella Rems di Pisticci, in provincia di Matera, si legge: redazione di giornalino, laboratorio emozioni, mercatini itineranti, cineforum, progetto benessere e autonomie, uscite culturali, tutti al mare, teatroterapia. Si legge ancora sul sito, “le Rems sono state progettate con l’obiettivo di concretizzare la possibilità per il paziente di pensarsi all’esterno, di confrontarsi di fatto con la comunità, di dare vita ad una progettualità dotata di consistenza”.
Le Rems oggi sembrano funzionare, il focus, che si sposta dalla detenzione alla riabilitazione, sembra aver concentrato l’attenzione sul vero problema di cui questi istituti hanno sofferto nel passato. Nei prossimi anni le varie commissioni si occuperanno di valutare l’operato delle Rems e sancire – speriamo – la fine di una pagina dolorosa dell’Italia degli ultimi centocinquanta anni. Ma non bisogna dimenticare che gli Opg erano aperti fino a cinque anni fa.
Fonte:2duerighe.com