Capisco che l’apprendere del carcere e di quello che vi accade, pressoché ogni giorno, possa intenerire il cuore di alcuni ovvero di quelli, sicuramente minoranza nella popolazione come nella politica, che almeno se ne interessano e non pensano che si tratti di un mondo a parte che riguarda solo i pochi (?) che vi capitano, come invece i più immaginano, per loro irreparabile difetto.
Ciò nonostante, anche il compassionevole buonismo che di frequente registriamo (nell’opinione pubblica come nella politica) non manca di lasciarci un velo di disappunto e non solo perché, purtroppo, non sono mai state le lacrime o la divina carità a rendere migliore ciò che andrebbe rinnovato integralmente e neppure hanno posto un freno alla pessima/inadeguata amministrazione di un servizio pubblico quale è persino quello penitenziario, ma soprattutto perché tali pur comprensibili reazioni, che riguardano la sofferenza immotivata nelle italiche prigioni, toccano solo una parte del problema, purtroppo e nei fatti contribuendo a nascondere “sotto il tappeto” tutto il resto.
Con identico spirito e occhio non malevolo, quindi, abbiamo letto di un’intervista dello scorso 2 aprile al nuovo direttore della Casa di Reclusione di Sulmona e già direttore della Casa Circondariale di Teramo descritto come “un padre che ha preso i giochi dei figli e li ha portati in carcere e che si è improvvisato giardiniere e insieme ai detenuti ha piantato alberi e fiori” e che, più avanti nell’articolo, afferma: “….i numeri non aiutano, ma bisogna sempre andare avanti cercando di garantire dignità a chi è recluso…”.
Leggiamo, inoltre, nel catenaccio dell’articolo: “Tornare è un grande onore oltre a un banco di prova. L’obiettivo è lo stesso: la dignità del detenuto” e non comprendiamo se si tratti di una libera sintesi dell’autore o di una effettiva affermazione dell’intervistato nonostante il virgolettato; tutto comunque molto bello, la dignità soprattutto e chi lo contesterebbe? La dignità, certo, quella degli esseri umani che non deve essere mai messa in dubbio meno che mai nel carcere, però non solo quella dei detenuti ma di tutti e anche dei Poliziotti Penitenziari provvedendo, nel concreto, a rispettarne professionalità, ruolo ed esigenze lavorative e personali, nell’alveo dei principi di legalità e di civile convivenza a cui anche i detenuti devono attenersi.
O meglio, diciamo che ciò che andrebbe ricercato veramente è la dignità del carcere nella Società che al momento non esiste e che, anzi, qualora si ripercorra l’errore madornale, proprio in questi anni di tanti direttori penitenziari e vertici regionali e centrali dell’Amministrazione, di voler fare per forza del carcere un’isola felice il risultato, tranne rare eccezioni, è la condanna all’eterno ritorno di coloro che dal carcere escono a fine pena.
Dire che quello che si ricerca è la dignità del detenuto, in tutte le accezioni possibili, equivale ad affermare che il carcere ed i detenuti, almeno inizialmente, ne sono privi e non è vero, semmai sono il disinteresse, lo stato di abbandono ed il pressapochismo a fare in modo che si perda.
Per tali motivi le parole del neo-direttore del carcere di Sulmona ci convincono poco: quando si comandano le donne e gli uomini di un Corpo di Polizia sebbene operanti in un carcere, salvaguardare la dignità dell’utenza è uno dei presupposti ma non può essere lo scopo, sennò si fa solo filosofia spicciola, purtroppo, sulle spalle chi in carcere lavora soprattutto se di Polizia penitenziaria e, nel contempo, si dimentica (ma in Italia avviene spesso) che la condanna da scontare è stata inflitta da un giudice in virtù di una norma penale, a seguito di un reato commesso e che esistono le vittime del reato le cui lesioni meritano comunque una riparazione, sia questa anche il recupero alla Società (e l’implicito cambiamento di vita) di chi ha sbagliato.
Di Armida Miserere, che l’articolo cita e che ho avuto l’onore di conoscere bene, mi hanno raccontato che una volta a Torino, rivestita una tuta di servizio della Polizia penitenziaria (che prima delle rimostranze di associazioni e garanti si chiamava “mimetica”) aveva accompagnato e coordinato in prima persona le operazioni delle donne e degli uomini del Corpo durante una perquisizione straordinaria all’interno delle celle detentive, nell’assoluto stupore degli addetti e degli stessi detenuti.
Non credo che occorra aggiungere altro…
LEO BENEDUCI