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LEO BENEDUCI – QUASI VERO (quasi?). TITANIC PENITENZIARIO – Parte II

Andrea P. ha 23 anni, è iscritto al terzo anno di Giurisprudenza e da 1 anno è Poliziotto penitenziario.

Gli chiedo di parlarmi della sua esperienza di lavoro in carcere e lui accetta:

“sono io che ho scelto di andare via da casa, perché volevo avere una vita indipendente ed ero stufo di farmi mantenere dai miei. – esordisce – Tre anni fa, quando ho presentato la domanda, ero pronto a tutto, avrei accettato di fare qualsiasi cosa, ma non mi aspettavo di dover affrontare quello che ho trovato qui!”.

“Scusa” gli chiedo “ma durante il corso avrete fatto un periodo di on the job (tirocinio), avrete visto, vi sarete resi conto che non era facile?”

“Si – risponde – il tirocinio lo abbiamo fatto, ma è diverso, ti fanno vedere le cose come se tutto accada tranquillamente,  i detenuti vanno ai passeggi oppure rientrano in cella, c’è il vitto, il campo sportivo, l’infermeria, i colloqui, ci sono le traduzioni, qualcuno ogni tanto lo senti urlare ma non ti riguarda, non è affar tuo, tu sei un poliziotto, dalle celle proviene un odore di sugo e di aglio e pensi che, in fondo, è come a casa ma un po’ più stretti, ma non è così, né per loro, né per te.”

“Ma al corso a scuola, almeno, qualche cosa ve l’avranno raccontata?” Gli chiedo,

“a pensarci poco – aggiunge – tante parole quando gli insegnanti c’erano ma spesso eravamo da soli in aula, certo il codice, la Costituzione,  il Ministero e il Dap a Roma, ci hanno avvertiti che se sbagliamo a comportarci  possiamo passare guai seri e ci hanno fatto fare persino le prove di ‘sbarricamento’ per le rivolte, ci hanno detto anche e non una volta sola che dobbiamo usare la psicologia (?) e che siamo un po’ come i confessori dei detenuti, poi le marce per il giuramento, il tesserino e la pistola che non ho più usato da allora”.

“E quando sei arrivato al carcere?”

“Non avevamo neanche la divisa – dice – per cui per qualche giorno è andata così, lontano da tutto, eravamo in 5 e  stanziavamo al bar o in sala riunioni (?) chi veniva ci lanciava certe occhiatacce,  poi ci ha chiamato l’armiere ci ha detto che eravamo fortunati e ci dato le tute (operative ndr) una per ciascuno (sic!) e un ispettore ci ha accompagnati a fare affiancamento,  eppoi eccoci qui”.

“Cosa non ti aspettavi del carcere?” gli domando ancora.

“Ogni cosa  – risponde mentre lo sguardo si fa cupo  – qui sei solo un nome sul foglio dei servizi mentre pensavi di essere importante, un Poliziotto parte di un Corpo di Polizia, persino le battute allo spaccio sembrano irreali, ma i detenuti, le reazioni violente e che non ti aspetti quelle sì che sono reali. In un anno ho visto di tutto, quello (il detenuto) che aggredisce te e i colleghi perché non vuole andare in udienza in Tribunale (e riesce a non andarci ndr), quell’altro che prima sfascia completamente la cella eppoi lo ricoverano senza scorta, evade dall’ospedale, va a casa della madre e sfascia tutto anche lì, lo riprendono e tu te lo ritrovi nella stessa sezione e nella stessa cella a riderti in faccia, oppure quell’altro che va in giro strillando con la sacchetta delle feci in mano e minaccia tutti perché non autorizzano l’acquisto dall’esterno di quelle che lui ritiene migliori di ciò che gli danno. Ci vorrebbe un libro – prosegue – e a me è andata bene con solo un livido sulla spalla per un pugno, ma conosco chi ha avuto le costole e il naso sfasciati,  e ci sono colleghi a cui gli occhi diventano rossi al solo pensiero di montare in sezione, perché lì sei veramente solo e devi persino ringraziare i detenuti se finisci il turno indenne, che se ti mettessero le mani addosso nessuno li punirebbe e se reagisci qualche denuncia te la becchi e l’avvocato te lo paghi  per anni.”.

Comprendo che a questo punto si voglia sfogare, è giovane e imparerà a sue spese che lamentarsi serve a poco per cui lo lascio fare.

“Voi dei sindacati non capirete mai, il direttore non c’è e viene uno da fuori, che non ho mai visto, una volta a settimana, il comandante neppure perché, dicono, è a Roma a fare un corso, c’è il comandante del nucleo che però in un anno è passato nei reparti solo una volta e la conferenza di servizio la mattina  la fa un ispettore ma non sempre; le circolari? Le mettono in bacheca e chi vuole e ha tempo le legge, ma se si ha bisogno di qualcosa si va  in segreteria a chiedere e lì ti rispondono a tozzi e bocconi. Io me la cavo perché un po’ di diritto ne mastico ma quello di cui ti rendi conto è che Roma è lontana e che per il Dap sei solo un numero, perché  sono altre le cose che contano anche per i politici e non sei tu né la Polizia penitenziaria e neanche la sicurezza o la c.d. legalità, se non fosse offensivo per il Corpo oserei dire ‘carne da macello’ e i detenuti lo sanno bene perché ti fanno capire in ogni  momento che non sei nessuno e che è meglio che fai finta di niente, che tanto non ti ascolta nessuno.”.

Lo vedo andare via, verso la mensa, mentre conclude: “Io non sputo sul piatto dove mangio, ma se mi laureo me ne vado perché a restare così si muore un po’ ogni giorno.” e davvero non so quanti bravi ragazzi vittime dell’ignavia dell’arroganza di un sistema che non produce risultati saranno costretti a ragionare così.

FORTUNA CHE: IN QUANTO SCRITTO, QUALSIASI RIFERIMENTO A FATTI O A PERSONE REALMENTE ESISTENTI E’ PURAMENTE CASUALE.  

Leo Beneduci

Redazione OSAPPoggi

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