L’Italia è uno dei Paesi in cui ai detenuti non sono concessi rapporti sessuali con i propri partner. “Studi condotti nei penitenziari dei Paesi che aderiscono a tale scelta – spiegano Cristina Tedeschi, medico chirurgo e specialista in Ginecologia ed Ostetricia e Debora Rossi, psicologa specializzanda in psicoterapia cognitivo-comportamentale, fondatrici del sito Babeland.it – hanno mostrato come la possibilità per i reclusi di coltivare la propria sfera intima e sessuale non soltanto riduca le tensioni, gli episodi violenti, la masturbazione compulsiva e l’omosessualità eteroindotta, ma anche il numero e la gravità delle sanzioni disciplinari riportate. Tale possibilità correla inoltre inversamente con il rischio di recidiva ed è dunque stato evidenziato come i detenuti che sperimentano la sessualità durante il periodo di reclusione sono meno inclini, rispetto agli altri, a riprodurre comportamenti devianti una volta conclusasi la detenzione“.
Tentativi in tal senso in Italia ce ne sono stati, ma sono tutti falliti. Ben otto anni fa, attraverso l’Associazione Antigone, che da oltre trenta si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale, Carmelo Musumeci (scrittore ex criminale ed ergastolano che in carcere ha conseguito tre lauree) aveva lanciato una petizione (#amoretralesbarre che raccolse 2810 firme), ma l’iniziativa non ha mai conseguito alcun effetto pratico.
Ci aveva provato anche il deputato Marco Boato nel 2002, quando era capogruppo al Misto della Camera, a proporre una legge (che portava la firma di 64 onorevoli sia della maggioranza che dell’opposizione) per offrire ai detenuti la possibilità di “una visita al mese delle persone già autorizzate ai colloqui ordinari, della durata minima di sei ore e massima di ventiquattro, in locali adibiti o realizzati a tale scopo, senza controlli visivi e auditivi”. “Ovviamente – spiegava Boato – potranno usufruire di questa opportunità solo le persone che abbiano già dimostrato di avere requisiti di affidabilità e di non pericolosità ed alle quali vengano già concessi permessi”. Ma anche questa proposta è finita nel dimenticatoio.
“Ma come si fa a pensare che un uomo o una donna possano salvare i legami affettivi se gli unici momenti di contatto sono i colloqui, durante i quali sei guardato a vista? La cattolicissima Spagna o l’ordinata Svizzera consentono i ‘colloqui intimi’, da noi appena qualcuno ha avanzato l’ipotesi delle ‘stanze dell’affettività’ si è subito parlato di ‘celle a luci rosse’“», ribadiva Ornella Favero, coordinatrice dell’associazione Ristretti Orizzonti, in un’intervista a Specchio, inserto de La Stampa, del 12 febbraio 2005. “C’è la convinzione che la pena sia privazione della libertà, più tante piccole torture: la distruzione degli affetti e la castrazione di qualsiasi manifestazione di una normale vita sessuale”. Il che vale, ovviamente, per gli uomini e per le donne.
Il Consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/la proprio/a partner senza sorveglianza visiva durante la visita. (R, ’98, 7, regola n. 68). Anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha spinto per mettere a disposizione dei detenuti luoghi per coltivare i propri affetti (R 1340, ’97) relativa agli effetti della detenzione sui piani familiari e sociali. Tutto ciò, però, non vale per l’Italia. La legge 653/’86 (poi abrogata) aveva ipotizzato che il detenuto potesse mantenere un legame di coppia pre-esistente, ma la cosa ha suscitato delle “ovvie perplessità di ordine psicologico e morale, oltre che ambientale”. “Per fare un esempio – scriveva la psicologa Giuliana Proietti su Ristretti.it – il detenuto nella cella dell’amore va controllato? E se sì, da chi? Come? Attualmente sono in vigore 4 ore di colloquio e 12 minuti di telefonata mensile: un periodo di tempo troppo breve che non può ovviamente sostenere alcun tipo di rapporto affettivo”.
Insomma, siamo ancora molto distanti, almeno nel nostro Paese, dall’approvare quanto scriveva Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione”.
Fonte: ilfattoquotidiano.it