Corruzione, stragi, trattative, fiumi di denaro che vengono investiti nell’economia legale, una fitta rete di legami ed interessi tra mafie, politica, imprenditoria e centri deviati di potere, oggi come ieri. E’ lo spaccato che si evidenzia mettendo in fila fatti, processi ed inchieste, accadute negli ultimi anni, che vogliono far luce su un pezzo di storia della nostra Repubblica.
E le notizie degli ultimi mesi confermano ciò di cui stiamo parlando.
Ieri sono state depositate le 1.078 pagine della sentenza “’Ndrangheta stragista” con cui la Corte d’Assise di Reggio Calabria, presieduta da Ornella Pastore, ha condannato all’ergastolo i mandanti degli attentati ai carabinieri: il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, e il referente della cosca Piromalli, Rocco Santo Filippone.
In quella sentenza, per quei delitti avvenuti nei primi anni Novanta, si parla in maniera chiara di “mandanti politici” e di “ulteriori soggetti coinvolti” in quella che i giudici definiscono una “comune strategia eversivo-terrorista”.
Un’ulteriore conferma rispetto a quanto emerso in altre indagini e processi, come quelli sulle stragi di Capaci e via d’Amelio, sulla trattativa Stato-mafia (che in primo grado ha portato a pesanti condanne per boss, politici ed ex appartenenti alle forze dell’ordine) e le stragi del 1993 di Roma, Firenze e Milano.
L’ombra di un Sistema criminale che, come aveva ricordato nella requisitoria il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, “è ancora attivo”.
Nelle pieghe della sentenza calabrese vi è un’indicazione chiara sui temi che vanno approfonditi e su quale sia l’orizzonte a cui guardare per comprendere quanto è avvenuto in quella terribile stagione di sangue. “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile – si legge – che dietro tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali”. E inseriti in quel progetto vi erano “soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato”. Un grumo di potere a cui partecipavano anche le organizzazioni criminali, ’Ndrangheta e Cosa Nostra, “alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neo partito Forza Italia di Silvio Berlusconi”. Secondo i giudici, la speranza era l’aiuto di Silvio Berlusconi per alleggerire il 41bis. “Strategie criminali e strategie politiche si intrecciano fra loro – scrive sempre la Corte – favorite dall’esistenza di un comitato d’affari tra ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, servizi segreti e politica”.
I giudici hanno inviato alla Procura gli atti del processo, in particolare quelli riguardanti le dichiarazioni in aula di Giuseppe Graviano, contenute anche in un memoriale. Perché ci sono aspetti che vanno approfonditi e chiariti.
Si può dire che sul fronte investigativo c’è un nuovo fermento nel contrasto alle criminalità organizzate e nell’intenzione di portare alla luce quelle zone d’ombra che hanno contraddistinto la storia del Paese.
A Bologna è iniziato davanti al Gip un nuovo processo per la strage della stazione del 2 agosto 1980. A Palermo è ancora in corso il processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia e davanti al Gip è in corso il procedimento sulla morte del poliziotto Antonino Agostino e della moglie Ida Casteluccio, uccisi il 5 agosto 1989, dietro cui si nascondono quelle stesse menti raffinatissime che avevano attentato alla vita di Giovanni Falcone qualche mese prima, a Caltanissetta si indaga sulle stragi di Falcone e Borsellino e le recenti sentenze confermano proprio la presenza di concorrenti esterni dietro i delitti, guardando oltre al depistaggio e la vicenda Scarantino. A Firenze è stato riaperto il fascicolo sui mandanti esterni per gli attentati del Continente (indagati sono sempre i soliti Berlusconi e Dell’Utri) con il coordinamento del procuratore aggiunto Luca Tescaroli e il pm Turco.
Un nuovo impulso investigativo verrebbe dalle parole di Salvatore Baiardo, gelataio piemontese di origini siciliane che all’inizio degli anni 90 curò la latitanza dei fratelli Graviano ed altri sviluppi investigativi riguardano il possibile coinvolgimento di soggetti esterni a Cosa nostra nelle stragi di Firenze, Roma e Milano.
Ed anche la Procura nazionale antimafia ha creato un pool per far luce su questi aspetti. Pool di cui, quando concluderà il suo incarico all’interno del Csm, farà parte anche Nino Di Matteo dopo il reintegro da parte del Procuratore capo Federico Cafiero de Raho, tornato sui suoi passi dopo l’erronea espulsione.
Le inchieste, dunque, proseguiranno su più filoni.
Del resto guardando al passato si può comprendere anche il tempo presente e le dinamiche che tornano.
Su questo fronte l’inchiesta “Basso profilo”, coordinata della Procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri, ha offerto l’immagine di un sistema criminale evoluto che è tutt’altro che sconfitto.
Come ha riferito lo stesso magistrato siamo di fronte ad un’organizzazione criminale capace di “entrare nei salotti buoni della società grazie a imprenditori, avvocati, notai. Ci sono rapporti diretti con la pubblica amministrazione, coltivati da professionisti che hanno piena consapevolezza di avere interlocutori espressione della criminalità. E’ quello che avevamo visto arrivare venti anni fa: la ‘Ndrangheta che si traveste da imprenditore. E bussa alla politica. E la politica, per lo meno un pezzo importante di essa, risponde”. Quindi il magistrato ha evidenziato come sarebbe necessaria “una rivoluzione del codice di procedura penale e del regolamento penitenziario che inasprisca le pene. Le nostre indagini dimostrano che delinquere è ancora troppo conveniente”.
Concetti ripetuti a più riprese anche da altri “magistrati di frontiera” come il Procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato che appena un anno fa, in occasione della cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario a Palermo, aveva evidenziato come la “questione giustizia inestricabilmente connessa con questione sociale”.
C’è una magistratura che non si sottrae al dibattito. Anche all’interno del suo organo superiore il CSM si respira un’aria nuova. Laddove in passato si era manifestata la presenza di gravissime patologie come il correntismo, il carrierismo o il collateralismo con la politica, oggi c’è la volontà di andare oltre alla logica dell’appartenenza. Un invito che consiglieri come Sebastiano Ardita o Nino Di Matteo hanno più volte espresso. Il vento di cambiamento si è manifestato anche di fronte ad una magistratura capace (nonostante i suoi difetti) di processare se stessa, intervenendo anche duramente per fare pulizia (caso Palamara docet).
Ma anche intervenendo su questioni centrali come la riforma della giustizia o la gestione degli uffici di Procura.
A fare da contraltare a questo “vento nuovo” c’è la politica, incapace di dare seguito a quel senso di responsabilità di cui parlava Paolo Borsellino a Bassano del Grappa nel 1989. Una responsabilità che andava oltre le questioni penali. Un discorso che è stato spesso dimenticato in cui ricordava come un politico potrebbe risultare penalmente non responsabile, senza nulla togliere che possano esserci responsabilità che dovrebbero comunque esser sanzionate quantomeno sul piano politico, sociale o professionale.
Abbiamo sentito il discorso del presidente Giuseppe Conte nel giorno in cui ha chiesto la fiducia alla Camera. Durante le repliche in aula, ha citato il giudice Paolo Borsellino, ricordando anche che il 19 gennaio sarebbe stato il suo compleanno, raccogliendo applausi. Ma la verità è che il suo Governo è stato scarso nella lotta alla mafia. Le riforme promosse dal ministro della Giustizia Bonafede sono poca cosa rispetto a ciò che sarebbe necessario concretamente e la vicenda che lo ha visto protagonista sulla questione carceri e mancata nomina di Nino Di Matteo al Dap non ha ancora ricevuto una risposta adeguata. Così come, ad oggi, abbiamo sentito parlare di Recovery fund e aiuti dall’Europa, ma mai si è parlato di intervenire per implementare investimenti e fondi per il potenziamento dell’apparato investigativo e repressivo per la ricerca di latitanti come Matteo Messina Denaro. O ancora il potenziamento per le forze dell’ordine e le attività di polizia giudiziaria con la messa a disposizione di tecnologie all’avanguardia sempre più indispensabili nel contrasto alle mafie nel terzo millennio. Eppure, l’Italia, il nostro Paese, è il settimo Paese più ricco del mondo, ma certi investimenti non vengono mai fatti.
Addirittura è emerso di recente che, tramite i broker, le mafie siano in grado di ripulire centinaia di miliardi di euro. Cifre che superano di gran lunga quei calcoli sulla “Mafia Spa” che raggiungerebbe profitti pari a circa 150 miliardi di euro l’anno.
Una quantità di liquidi immensa che permette alle organizzazioni criminali di investire in borsa e di ottenere ingenti capitali grazie al traffico internazionale di stupefacenti.
Un campo, quest’ultimo, che vede la ‘Ndrangheta e Cosa nostra come monopoliste mondiali di un mercato florido che, in base ai dettami europei, viene anche inserito nel calcolo del Pil.
Di fronte a tutto questo, però, il Governo tace, colpevolmente. E non basta il lavoro meritorio che la Commissione parlamentare antimafia del Presidente Nicola Morra sta conducendo per far dire che la lotta alla mafia sia una priorità. Del resto, è noto, allo stato si trova al tredicesimo posto dell’agenda politica. Era così per il “Conte bis”. Chissà cosa accadrà per il “Conte ter”. Del resto al peggio non c’è mai limite.
Fonte: antimafiaduemila.com