Attentati come quelli di Capaci e di Via d’Amelio che dopo oltre 25 anni sono lontani dalla piena verità , attendono una lettura più approfondita dei fatti. La mafia siciliana continua ad essere sul banco degli imputati nei processi in Sicilia ed in “continente”, molte verità appaiono lontane.
“Ci vorrebbe qualche altro collaboratore interno alla mafia o esterno alla mafia”, Pietro Grasso, già presidente del Senato e procuratore nazionale antimafia, lo ha detto più volte. E più volte si è invocato un “pentito di Stato” che potesse far luce sui tanti misteri degli attentati di mafia, dei rapporti con la politica, delle divise infedeli.
Attentati come quelli di Capaci e di Via d’Amelio che dopo oltre 25 anni sono lontani dalla piena verità (con poche luci, come quella faticosamente accesa nel processo “Trattativa”), attendono una lettura più approfondita dei fatti. La mafia siciliana continua ad essere sul banco degli imputati nei processi in Sicilia ed in “continente”, molte verità appaiono lontane.
Dunque, servirebbe un “collaboratore interno o esterno”, ma che sia molto lontano dal “pupo vestito” Vincenzo Scarantino. Nell’udienza innanzi alla Corte d’Appello di Palermo del 19 ottobre scorso sul ‘processo Trattativa’ Pietro Riggio, ex agente di polizia penitenziaria, poi affiliato in ‘cosa nostra’ e oggi collaboratore di giustizia, entra a gamba tesa sui tanti misteri di Sicilia.
Riggio, soprattutto negli ultimi mesi, sta rilasciando (e facendo discutere) per diverse dichiarazioni in merito alla stagione stragista dei primi anni ’90.
Tira in ballo Giovanni Peluso, l’ex poliziotto ed ex 007 indagato per la strage di Capaci anche se, pur collaborando dal 2009, ha fatto il nome dell’ex agente dei servizi segreti solo molti anni dopo. “Fino ad oggi – ha spiegato Riggio – avevo avuto paura di mettere a verbale certi argomenti, temevo ritorsioni per me e per la mia famiglia. Ma, adesso, credo che sia venuto il momento di parlare”.
I misteri dell'”Attentatuni”
Di cosa? Della strage di Capaci, ‘l’Attentatuni’. 23 maggio 1992, il Falcon 50 noleggiato dal Sisde, su cui viaggiavano Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, atterra sulla pista dell’aeroporto di Palermo ‘Punta Raisi’. Sono le 17.43, quando il capo scorta del giudice, Antonio Montinaro, si avvicina al velivolo, mentre gli altri agenti sono pronti davanti alle tre auto blindate. Falcone e sua moglie scendono dalla scaletta, Giuseppe Costanza, l’autista, apre il bagagliaio e sistema le borse. Poi prende posto sul sedile posteriore, perché Falcone ha deciso di guidare l’auto con accanto la moglie. Il corteo si apre con la Fiat Croma marrone, guidata da Vito Schifani, insieme a lui Rocco Dicillo e Montinaro. In mezzo, la Croma bianca guidata da Falcone. A seguire la Croma azzurra guidata da Gaspare Cervello, con Paolo Capuzza e Angelo Corbo.
Sono passati solo dieci minuti dall’atterraggio. Le tre auto sfrecciano sull’autostrada che li portera’ a Palermo. Alle 17:57 la deflagrazione: muoiono il giudice Falcone, la moglie, gli agenti Schifani, Dicillo e Montinaro. I feriti saranno 23.
Le porte spalancate dal pentito Riggio
Racconta Riggio. Giovanni Peluso “mi ha fatto il riferimento per quanto concerne come fu messo l’esplosivo all’interno del canale“. Sempre Riggio poi precisa di aver saputo da lui anche “quello che era il piano di volo del Giudice Falcone, poi mi parla del Falcon, mi dice :’Lì quando parte il piano di volo, non si sa dove va, solo a dieci mila piedi da terra si sa la destinazione’, e lì tira la battuta ‘tuo cugino Giancarlo ne ha qualcosa’, si riferisce a Giancarlo Giugno”.
Che la mafia di Niscemi, nel nisseno, fosse da sempre un grande accrocco di interessi lo si sa da tempo, ma le parole del pentito Pietro Riggio spalancano porte incredibili. Riggio dichiara, rispondendo alle domande del Procuratore generale Barbieri, che Peluso “mi disse a proposito che la telefonata fatta era stata fatta da una utenza che era intestata all’onorevole Maira, che in quel periodo era onorevole a Roma, però che l’avesse fatta Giancarlo Giugno, con cui erano stretti, e in intimi rapporti”.
La telefonata con cui si avvisava della partenza del Falcon che sarebbe atterrato a Palermo. E quindi il via libera per ‘l’Attentatuni‘. Dunque secondo Riggio, un parlamentare all’epoca in carica (eletto appena un mese prima, il 23 aprile 1992 alla Camera) avrebbe ceduto il proprio cellulare ad un capomafia. Sembra incredibile. Chiamiamo Maira. L’ex deputato dice all’AGI: “Per quello che ricordo, all’inizio c’è stato un equivoco tra questa telefonata e l’utenza telefonica che avevo io con un altro telefono di un omonimo che poi è stato individuato e sentito dalla polizia. Il mio telefono non era quello da cui partì questa telefonata, tant’è che nel primo processo di Capaci il procuratore ebbe a chiarire che Rudy Maira non aveva nulla a che vedere con l’attentato a Falcone e tant’è vero che non sono mai stato rinviato a processo. È stato già chiarito – spiega Maira -, mi sembrano fatti vecchi”. Fatti vecchi che Riggio riprende come nuovi?
L’onorevole Rudy Maira, già sindaco di Caltanissetta dal 1982 al 27 aprile del 1984, è stato processato a Caltanissetta per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio in seguito alle accuse di un altro collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, ma poi assolto nel 2003 (e con la prescrizione per l’accusa di voto di scambio). Assoluzione che Maira ricorda: “I miei rapporti con Giancarlo Giugno sono principalmente di natura professionale, anche questo è stato chiarito, erano dichiarazioni di Leonardo Messina nel processo in cui sono stato assolto. Anche queste, dichiarazioni vecchie. Sì, sono prescritto per voto di scambio, ma l’importante che non fosse per 416bis. Messina – conclude l’ex parlamentare – è stato pure condannato per calunnia in un processo avviato dalla mia denuncia”.
Nel 2006 Maira torna ad occupare uno scranno all’Assemblea regionale siciliana nel collegio nisseno, per poi essere rieletto nel 2008 con l’Udc, togliendosi forse il sassolino più grande con la nomina a vice presidente della commissione regionale Antimafia, che per Maira rappresenta “il culmine della carriera politica“.
Tornando a Giancarlo Giugno, 50enne, capo clan a Niscemi di ‘cosa nostra’ e già consigliere comunale della città , parente illustre di un sindaco – Paolo Rizzo – la cui civica assise venne sciolta per mafia, negli ultimi lustri è stato coinvolto in varie inchieste e più volte ha fatto la spola nelle carceri italiane, ma mai si è verificato il suo ruolo compiutamente.
Riggio spiega come Giugno sia parente del boss Carmelo Barbieri “perché c’è una parentela tra Giancarlo Giugno e Carmelo Barbieri. La mamma di Giancarlo Giugno è nativa di Resuttano. Quando Giancarlo Giugno – racconta Riggio – nel 1986, è stato mandato al soggiorno obbligato, avendo questa misura restrittiva che non poteva soggiornare a Niscemi, lui infatti venne ad abitare nella casa del nonno a Resuttano. Quindi l’ho conosciuto tramite Carmelo Barbieri, l’ho conosciuto bene, lo conosco bene, è una persona che c’ho avuto a che fare, anche se non ho commesso dei reati, però diciamo lo conosco bene, so la sua provenienza, so che cosa faceva, so a chi apparteneva perché anche lui, Giancarlo Giugno, era una sorta di uomo di fiducia oltre che mafioso della famiglia di Niscemi, della famiglia di Madonia, che si avvaleva di tre – quattro persone intelligenti, come dicevano loro, per mandare avanti diciamo azioni parallele all’interno delle dinamiche mafiose”. Per poi spiegare ancor meglio che “era nominato da tutti Giancarlo Giugno, diciamo era un nome che faceva da apri pista ovunque andavi se lo conoscevi“.
Il pentito Riggio racconta anche i contorni della sua collaborazione con lo Stato. Dicendo che “precisamente dal 2009 al 2016, all’interno del programma di protezione, sono stato messo in difficoltà . In poche parole, sono stato sia avvicinato da persone che ho descritto quali sono, per non testimoniare soprattutto in alcuni processi, in quello Montante prima di tutto, perché mi è stato fatto il nome suo, mi sono stati offerti anche dei soldi, sono tutte situazioni che io ho denunciato. Di contro mi hanno fatto arrestare”, spiega.
Aggiungendo una frase ancor più inquietante: “All’interno del carcere di Monza si sono verificate alcune dinamiche particolari. In poche parole sono state invitato a non dire nulla, riguardo il processo a carico di Montante, e soprattutto riguardo tutto quello che atteneva gli appartenenti allo Stato. Quelli con la divisa”.
Agli inquirenti toccherà verificare queste dichiarazioni, appurare se Riggio sia o non sia quel “collaboratore interno o esterno” alla mafia che permette di risolvere i misteri dei rapporti tra pezzi dello Stato e cosa nostra. È la tortuosa strada per la verità .