Il magistrato è ancora ad alto rischio della vita
Il consigliere togato del Csm, Nino Di Matteo, già sostituto procuratore nazionale antimafia, su decisione del Procuratore nazionale Federico Cafiero de Raho, lo scorso 23 settembre è stato reintegrato nel pool stragi “con effetto pienamente ripristinatorio”. La notizia è uscita grazie a Saverio Lodato, nostro editorialista, che in questo giornale ne ha riportato ampia notizia per dare l’informazione ai cittadini, mentre i grandi giornaloni, non casualmente, avevano taciuto ogni riferimento. E solo nei giorni successivi anche agenzie e quotidiani nazionali hanno ripreso la notizia.
Come ha già scritto Saverio Lodato, nel suo esaustivo articolo, contro Di Matteo vi sono state delle vere e proprie “porcate” adottate contro il magistrato palermitano, negli ultimi venticinque anni tra i più impegnati nel contrasto alla lotta alla mafia.
Malgrado abbia dato ampia prova della sua professionalità, da ultimo ottenendo le condanne in primo grado degli imputati nel processo trattativa Stato-mafia, ma prima ancora non vanno dimenticati i risultati raggiunti sulle stragi dei magistrati Chinnici, Falcone, Borsellino e delle loro scorte, e sull’omicidio del giudice Antonino Saetta, con condanne per mafiosi, politici e colletti bianchi, e l’impegno costante rivolto alla ricerca dei mandanti esterni delle stragi del 1992-1993, è stato tra i magistrati più derisi e perseguitati, anche in maniera aggressiva.
Eppure è tra quei magistrati che più di tutti si è avvicinato alla verità sulle stragi. Basta mettere insieme i pezzi di quanto emerse nel processo Borsellino ter, condotto assieme al magistrato Anna Maria Palma, che portò alla condanna dei principali capimafia della Cupola, in cui per la prima volta venne fatto riferimento proprio alla presenza dei mandanti esterni in quei delitti. Un processo in cui emerse, con la deposizione del collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, l’esistenza della trattativa Stato-Mafia, poi sancita ulteriormente dalla sentenza della Corte d’assise di Palermo del 20 aprile 2018.
Come ricordato dal consigliere togato del Csm, Sebastiano Ardita, nel corso della sua carriera Di Matteo è stato più volte osteggiato dai più alti vertici della magistratura, subendo l’apertura di un indecente provvedimento disciplinare (da cui è stato prosciolto) e una lunga serie di clamorose bocciature da parte del Csm che gli preferì colleghi con meno esperienza e titoli.
Tanti cittadini onesti e familiari di vittime di mafia, come Salvatore Borsellino, hanno espresso la propria soddisfazione per la decisione presa dal Procuratore nazionale antimafia de Raho, ma al contempo hanno chiesto di poter conoscere i motivi che lo portarono a scegliere quella ingiusta e clamorosa decisione.
“Se il Procuratore ci usasse la cortesia di spiegare quali pressioni ricevette allora per prendere quella improvvisa ed improvvida decisione e i motivi di questo repentino e temporalmente sospetto ripensamento – scriveva il fratello del giudice Paolo Borsellino – e se questi sono in qualche modo legati allo stravolgimento avvenuto all’interno del Csm con le dimissioni di Palamara e la sua radiazione della Magistratura forse darebbe anche ai comuni mortali qualche strumento in più per capire l’altrimenti inspiegabili contraddizioni di tali decisioni”.
Soddisfazione è stata espressa da Nando dalla Chiesa (“Credo che la decisione del Procuratore nazionale vada considerata come un gesto di saggezza che toglie quelle domande sul perché era stato escluso. Una figura come quella di Di Matteo è da salvaguardare e di fronte ad ogni obiezione folle si restituisce la totale affidabilità morale e professionale”), dal Presidente della Commissione antimafia Nicola Morra (“Giustizia è fatta. Sebbene con ritardo. Si è riconosciuto come il Procuratore Di Matteo rappresenti un valore aggiunto per l’analisi e la prosecuzione di attività di indagine sulla stagione delle stragi”) e dall’avvocato Antonio Ingroia (“Oggi Di Matteo svolge un ruolo importante dentro al Csm. Probabilmente, però, se non ci fosse stato quel provvedimento, da considerarsi sbagliato a maggior ragione alla luce della revoca, avremmo avuto un Nino Di Matteo dentro al pool stragi. Ovvero l’uomo giusto al posto giusto. Per questo si conferma quantomeno quella tardività degli interventi istituzionali in materia. Se ci fosse stata una revoca immediata o un’immediata decisione del Csm già al tempo, non ci troveremmo di fronte ad un provvedimento tardivo. Dunque è un misto tra amarezza e soddisfazione”).
Riflessioni importanti quanto condivisibili.
Analizzando quanto avvenuto è evidente che si è concentrato, specie negli ultimi tempi, un interesse convergente di vari poteri.
E non mi riferisco solo ai poteri dello Stato, ma anche quelli occulti, delle massonerie, ed i poteri forti, dell’alta finanza (non mi riferisco a quella lecita, ma soprattutto a quella illecita).
Figure come Nino Di Matteo, Giuseppe Lombardo, Nicola Gratteri, Roberto Scarpinato, Sebastiano Ardita ed altri (alcuni di loro sono anche ai vertici delle Procure tra le più importanti nella lotta alla mafia), sono parte di quel gruppo di magistrati che alzano il livello delle loro indagini portando a processo, e addirittura ottenendo le condanne nei vari gradi di giudizio, proprio di quei poteri da sempre legati alle mafie. Alle già citate massonerie ed alta finanza, aggiungiamo segmenti della politica, dei servizi segreti deviati e dei grandi Narcos.
Quest’ultimi vengono spesso sottovalutati in Italia, indicati in maniera generica come soggetti appartenenti alle mafie, l’organizzazione criminale mafiosa che vede soprattutto Cosa nostra e ‘Ndrangheta come protagoniste. E spesso non si tiene conto dell’enorme volume di interessi e denari che essi stessi muovono nei loro affari con guadagni che, approssimati per difetto, muovono tra i 70 e gli 80 miliardi di quel all’anno.
Sono loro quei soggetti che, assieme agli altri poteri, fanno più pressione per l’eliminazione di questi magistrati, come fossero corpi “estranei” che potrebbero mettere a repentaglio la loro stessa esistenza.
E’ per questo che si vuole la morte di Nino Di Matteo.
Più volte abbiamo raccontato l’escalation di intimidazioni da lui ricevute fino ad arrivare alla condanna a morte ricevuta direttamente dal Capo dei capi, ormai deceduto, Totò Riina (“Ed allora organizziamola questa cosa. Facciamola grossa e dico e non ne parliamo più…– e poi ancora – Perché questo Di Matteo non se ne va, ci hanno chiesto di rinforzare… gli hanno rinforzato la scorta, e allora se fosse possibile… ad ucciderlo… un’esecuzione come eravamo a quel tempo a Palermo partivamo la mattina da Palermo a Mazara, c’erano i soldati poverini a fila indiana a quel tempo”).
Parole a cui si sono aggiunte le rivelazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, figlio di uno dei capimafia più importanti di Palermo. L’ex boss dell’Acquasanta, pentitosi nel novembre 2014, aveva parlato di un progetto di attentato, mai revocato, deliberato sin dalla fine del 2012. Interrogato dai pm aveva riferito di una richiesta inviata con una lettera da Matteo Messina Denaro letta in un summit ristretto a cui partecipò assieme al suo vice, Vincenzo Graziano, ed i capi mandamento di San Lorenzo e Porta Nuova, Girolamo Biondino e Alessandro D’Ambrogio. Inoltre aveva spiegato anche il motivo per cui il pm doveva essere ucciso: “Si era spinto troppo oltre”. Quindi aveva raccontato dell’arrivo, nel capoluogo siciliano, di centocinquanta chili di tritolo, provenienti dalla Calabria, proprio per uccidere il magistrato. Un progetto di attentato che secondo le indagini della Procura di Caltanissetta è “ancora operativo”.
La logica dell’extrema ratio che nel 2014 si voleva adottare nei confronti di Di Matteo non è mai stata messa da parte nelle logiche delle organizzazioni criminali.
Un attentato che non si è ancora compiuto grazie all’intervento del collaboratore di giustizia a cui è seguito il rafforzamento della scorta fino al primo livello e la dotazione del bomb jammer, ottenuto anche grazie all’intervento di tanti cittadini che hanno manifestato massima solidarietà al magistrato, chiedendo un intervento alle istituzioni preposte.
E’ così che l’interesse dei poteri forti si è “dirottato” su altri campi.
Lo abbiamo visto più volte in questi mesi con la politica che è stata assoluta protagonista (in negativo) di certe dinamiche mettendosi di traverso ad ogni opportunità di cambiamento.
Il governo Renzi con Gratteri, e quello Conte con Di Matteo, promettendo ministeri importanti come quello della Giustizia o degli Interni, hanno compiuto dei veri e propri voltafaccia nei confronti dei magistrati, promettendo trasparenza ed impegno in prima persona nella lotta alla mafia, senza mai inserirla nei primi punti dell’agenda ed anzi piegandosi a “diktat” provenienti dall’esterno.
La recentissima vicenda del “caso Bonafede”, con la mancata nomina al vertice del Dap di Di Matteo nel 2018 e quei dinieghi ricevuti, e mai spiegati dal ministro della Giustizia, per virare su un altro magistrato con meno esperienza nella lotta alla mafia (Francesco Basentini), non aiuta certo a fare chiarezza. E non aiuta la lotta alla mafia.
Lo stop a certi magistrati si ottiene anche denigrando ogni aspetto del loro lavoro. Un’opera che si ottiene anche grazie alla compiacenza di certa stampa e certi giornali che procedono con un attacco pressoché sistematico.
E che dire di quella magistratura sempre più pervasa dal male oscuro del carrierismo e delle logiche correntizie? Le vicende che sono ruotate attorno al caso Palamara hanno mostrato il peggio del Sinedrio, ma grazie a Dio esiste anche una magistratura onesta, trasparente e con la schiena dritta, capace di processare se stessa.
Una magistratura che è capace di rivedere le proprie posizioni, così come ha fatto il Procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Giustamente ha reintegrato Nino Di Matteo nel pool stragi, ma ancora non ha spiegato le motivazioni che lo hanno portato ad adottare il primo provvedimento, quello dell’espulsione dal gruppo di lavoro del sostituto procuratore nazionale antimafia).
Tornare sui propri passi, lo riconosciamo, è un passo importante e non scontato, ma spiegare il perché del primo provvedimento, avvenuto dopo l’intervista di Nino Di Matteo rilasciata ad Andrea Purgatori per Atlantide su La7, sarebbe un atto dovuto, tenuto conto che al tempo si faceva riferimento ad una “violazione di segreto istruttorio” che, dati alla mano, non è mai esistita.
La speranza è che ciò possa avvenire, anche per dipanare ogni possibile dubbio.
Un modo per rafforzare ulteriormente quella lotta alla mafia che, purtroppo, è lasciata al solo impegno della magistratura.
La politica ha da tempo ammainato la bandiera in una guerra che, se si escludono poche eccezioni come il lavoro svolto dalla Commissione parlamentare antimafia presieduta dal senatore Nicola Morra ed alcuni membri, non ha mai voluto combattere fino in fondo. Un discorso che vale anche per questo governo del (non) cambiamento.
Lo dimostrano gli oltre 150 miliardi di euro l’anno della cosiddetta Mafia Spa; lo dimostra la latitanza ultra decennale del super latitante trapanese, Matteo Messina Denaro, depositario a detta dei pentiti dei segreti di Totò Riina e capo indiscusso di Cosa nostra; lo dimostra il nervosismo del boss stragista di Brancaccio, Giuseppe Graviano, che dal carcere sproloquia e manda segnali sinistri ai potenti di governo di ieri e di oggi.
E’ il paradigma di una lotta alla mafia lasciata, come ai tempi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ai magistrati isolati che rischiano quotidianamente la propria vita, e di una politica che nella migliore delle ipotesi, delega disinteressatamente; nella peggiore è addirittura complice.
Fonte: antimafiaduemila.com
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