Al nome di Carlo Renoldi la Cartabia arriva dopo aver selezionato e sentito una decina di magistrati. Tra questi ci sono l’attuale vice direttore Roberto Tartaglia, l’ex pm di Palermo voluto dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede assieme al capo del Dap Dino Petralia, che ha deciso la sua uscita con un pensionamento anticipato. Stanchezza e voglia di recuperare una dimensione privata, “di fare il nonno”, ha detto ai media. Tartaglia sarebbe stato penalizzato solo in quanto giovane di età e di carriera. Tra i magistrati sentiti da Cartabia anche l’ex procuratore di Roma Michele Prestipino e il presidente del tribunale di sorveglianza di Trieste Giovanni Maria Pavarin.
Ma alla fine la scelta è caduta su Renoldi che, per la sua concezione del carcere, le sue sentenze, e anche le sue affermazioni pubbliche, appare come una sorta di fotocopia di Cartabia per quell’idea di un carcere dal volto umano che la stessa Guardasigilli ha raccontato in più di un’intervista e in più di un intervento sia da presidente della Consulta che da Guardasigilli.
Ma innanzitutto chi è Carlo Renoldi? Ha 53 anni ed è nato a Cagliari, dove ha anche lavorato come giudice penale e come magistrato di sorveglianza. Ha fatto parte dell’ufficio legislativo di via Arenula nel 2013 e ha contribuito a risolvere il caso Torreggiani, quando la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per il trattamento disumano dei detenuti. Ha fatto parte dell’ufficio studi del Csm per approdare poi alla Suprema corte. Le sue sentenze e i suoi scritti, nonché gli interventi nei convegni, rivelano le sue idee.
Si definisce un uomo di sinistra, e la sua corrente è Magistratura democratica, ma è iscritto anche ad Area. Ha scritto molti articoli giuridici per “Cassazione penale”, la rivista diretta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, e per Questione giustizia, l’house organ di Md. E tra questi scritti si possono ripescare considerazioni come quelle che seguono. “La mafia è un problema sociale gravissimo, ma un giudice non può essere anti qualcosa, anche un mafioso ha diritto a un processo giusto”. E ancora: “Sono per un carcere costituzionalmente compatibile. Un carcere dei diritti, in cui però siano garantite le condizioni di sicurezza”. Un carcere in cui “il sindacato ha un valore, ma se svolge una pura difesa corporativa e non guarda alla funzione istituzionale, allora diventa una forza che tradisce l’istituzione”. I diritti di tutti quindi, dei detenuti, del personale, che se riconosciuti e garantiti, a loro volta garantiscono i detenuti.
Le sentenze di Renoldi in Cassazione vanno nella direzione indicata dalla Consulta con le sentenze sui permessi premio e sulla liberazione condizionale del 2019 e 2021 che fanno cadere il presupposto rigido della collaborazione. Può ottenere i permessi e può liberarsi dall’ergastolo ostativo non più solo chi si pente. In un dibattito del luglio 2020, tuttora disponibile su Radio radicale, Renoldi sposa in pieno “le indubbie aperture della Corte che hanno riscritto l’ordinamento penitenziario”. Però critica “le spinte reattive di segno assolutamente opposto, anche rivendicate orgogliosamente oppure nascoste e carsiche, anche abbastanza trasversali, che convergono sinistramente” e riguardano “alcuni ambienti dell’antimafia militante, settori dell’associazionismo giudiziario, nonché quella parte della magistratura di sorveglianza ostile ai diritti dei detenuti”. Una critica che coinvolge anche “l’atteggiamento miope di sigle sindacali corporative”.