L’istituto del 41 bis, temutissimo dalle mafie, strumento in questo periodo messo in discussione ma efficace, è ancora oggi una necessità nella lotta alle mafie.
L’intervista prende spunto dalle domande poste al professore all’incontro online del 18 febbraio 2021 “Art. 41 bis: tortura o necessità?” organizzata dagli studenti dell’Università di Firenze e dall’Associazione Nazionale Vittime della Strage dei Georgofili.
Vincenzo Musacchio, giurista e docente di diritto penale, è associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. E’ stato allievo di Giuliano Vassalli e amico e collaboratore di Antonino Caponnetto. Ha una trentennale esperienza di studi e di ricerche sulla criminalità organizzata che non solo spiega questa sua scelta, ma propone un’analisi approfondita del 41 bis nella lotta alle mafie.
L’istituto del 41bis funziona?
Il regime di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario è uno strumento che si è dimostrato efficace nel contenere il potere dei boss mafiosi ristretti in carcere. La sua efficacia è dimostrata dal fatto che i boss non riescono più a impartire ordini con la facilità di un tempo ai propri affiliati fuori dal carcere. È uno strumento di prima linea indispensabile assieme alla confisca dei beni nel contrasto alle mafie. Sono rimasto uno dei pochi ad essere favorevole al “carcere duro” per i mafiosi, ma mi conforta il fatto di avere al mio fianco Giovanni Falcone che lo volle fortemente, ma dovette morire per vederlo realizzato.
È sempre al centro di grandi dibattiti come se lo spiega?
Le contestazioni riguarderebbero alcune modalità troppo afflittive. Le reali limitazioni invece riguardano i contatti con l’esterno più che il vero e proprio benessere dei detenuti. La riflessione sul 41 bis va focalizzata sul suo scopo: un detenuto è sottoposto a regime differenziato quando sia riconosciuta la sua attuale capacità di collegamenti con l’associazione mafiosa, nonostante lo stato di detenzione ordinario. Le prescrizioni del regime sono decise da un giudice che valuta il bene della sicurezza pubblica prevalente sulla libertà di comunicare con la propria organizzazione criminale. Il 41 bis ha portato a impedire omicidi e sono stati inferti colpi alle attività economiche illegali con cui le associazioni criminali si finanziano. Questi, credo siano benefici di non poco conto. Una critica a mio parere priva di fondamento è l’inumanità del 41 bis. La lotta alla criminalità organizzata in carcere passa attraverso le varie offerte trattamentali anche a detenuti recalcitranti alla rieducazione.
È cambiato il 41 bis nel corso degli anni?
Certamente sì. Siamo di fronte a dati di natura oggettiva poiché il 41bis di oggi è un provvedimento personale sottoposto all’esame di un giudice, mentre prima non lo era e poteva essere applicato in base ad una scelta discrezionale dell’amministrazione penitenziaria. C’è la piena osservanza dei principi di legalità e di giurisdizione.
Ci sono forze politiche che propongono di abolire il 41 bis, che ne pensa?
Che sarebbe un grandissimo favore fatto alle mafie. Pur se legittima, giudico molto negativamente una simile proposta.
L’art. 27 della Costituzione, sul valore rieducativo della pena, dunque, per i mafiosi non vale?
È ovvio che quando si palesassero segnali di eventuale redenzione, l’ordinamento penitenziario preveda la possibilità di attenuare il rigore della pena. Meccanismo, peraltro, già esistente nel nostro ordinamento penitenziario. Chi si rifiuta di essere rieducato deve essere trattato al pari di chi invece accetta la rieducazione e lo fa con atti concreti? Che senso ha rieducare chi non vuol essere per nulla rieducato tantomeno risocializzato? Vorrei che mi si spiegasse come si può rieducare uno che non vuol essere rieducato! Se esiste il diritto alla libertà morale (inviolabile in base all’art. 2 Cost.) la persona può decidere di non volersi rieducare e risocializzare? Se esiste l’uguaglianza tra i cittadini (anch’essa inviolabile ai sensi dell’art. 3 Cost.) si possono applicare trattamenti simili quando sarebbe la loro applicazione a determinare delle discriminazioni? Saremmo capaci di rieducare uno che ordina di sciogliere il figlio di un pentito di mafia nell’acido per punire la sua decisione e per dare un monito a tutti gli altri associati? Chi ordina delitti efferati come l’uccisione di un bambino senza essersene mai pentito può godere del principio di rieducazione se non rinnega minimamente il suo passato, anzi ne va orgoglioso? Non basta il pentimento e il perdono, il reo deve risarcire concretamente le vittime, i familiari e la società con la propria opera sia da carcerato, sia da uomo libero. Se così non fosse, si farebbero solo discorsi pieni d’ipocrisia.
Secondo lei quindi la lotta alla criminalità continua anche nella fase esecutiva della pena?
Assolutamente sì! Guai se non fosse così. La lotta contro la criminalità organizzata non si esaurisce di certo con l’arresto dei singoli appartenenti alle mafie. Il carcere è sicuramente uno strumento utile a questa lotta. In questo senso, quando esponenti della criminalità organizzata sono assicurati alla giustizia, lo Stato ha il dovere di custodirli e, come dice la Costituzione, tendere a rieducarli e a reinserirli nella società. Di certo, con esponenti delle organizzazioni mafiose che hanno intrinseca, dentro di sé, una concezione distorta dello Stato quest’opera è più impegnativa e maggiormente specifica.
Secondo lei oggi i mafiosi temono il carcere?
Chiunque delinque sa che alla fine finirà in carcere. È quasi un percorso obbligato. I mafiosi però sono delinquenti “particolari”. Il potere dei boss sta tutto nel gestire il proprio clan. Prima del 41 bis i capi gestivano il clan tranquillamente dal carcere, continuando a impartire ordini ai sodali in libertà. Con il 41 bis, nonostante assicuri loro una carcerazione “privilegiata” (camera singola, nessun problema di convivenza come condivisione della televisione, del bagno degli armadi), ha come contrappeso la limitazione dei contatti con l’esterno. È questo il più grande danno per un boss: privarlo del suo immenso potere di comando. Finché non si comprenderà quest’aspetto sul 41bis, si continueranno a dire molte cose inesatte.
Nella sua lunga esperienza di studio della criminalità organizzata pensa che alla fine arriveremo a sconfiggerla?
Dipenderà da molti fattori. Dallo Stato, dai cittadini, dalla lotta a livello transnazionale. Giovanni Falcone era convinto che la mafia fosse un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani avesse un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine. Spero solo che la fine della mafia non coincida con la fine dell’uomo. Se posso esprimere un’opinione del tutto personale credo che la vera lotta alle mafie in Italia si sia fermata al “Maxiprocesso” e alla morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Fonte: antimafiaduemila.com