Una mattina di tanti anni fa, a Roma, da sostituto procuratore di «turno esterno», fui chiamato sul luogo di un
omicidio. La vittima si chiamava Raffaele Cinotti; non aveva nemmeno trent’anni. Era un agente di custodia in servizio presso il carcere di Rebibbia, ucciso appena uscito di casa. Fu subito chiaro – e ne sarebbe venuta conferma con il solito comunicato – che la sua morte era stata voluta dalle Brigate rosse.
A casa della vittima, dove ero salito per raccogliere le prime necessarie informazioni, fui colpito dalla estrema modestia e semplicità dell’abitazione e dell’arredamento, che riflettevano un tenore di vita fatto di sacrifici e ristrettezze economiche.
E ciò mi portava a considerare come lo Stato si mostrasse profondamente ingeneroso nel trattamento retributivo dei suoi servitori, dai quali però pretendeva senza riguardi condotte di vero e proprio eroismo. Perché era chiaro che Raffaele Cinotti era stato ucciso solo perché aveva fatto fino in fondo il proprio dovere, in un contesto che lo aveva esposto a rischi concreti e prevedibili.
Sono stati diverse decine, a partire dagli anni di piombo in poi, i casi eroici – del tutto sconosciuti ai più – di uomini e donne della polizia e dell’amministrazione penitenziaria che hanno sacrificato la vita o l’hanno sottoposta a fortissimi rischi, in ragione del proprio dovere e nel nome dello Stato.
Trovo importante che ciò oggi debba essere ricordato, e non certo per collegarvi ipotetiche forme di comprensione o indulgenza rispetto ai gravissimi fatti avvenuti a Santa Maria Capua Vetere e negli altri istituti di pena dei quali la cronaca si è ultimamente occupata.
Bisogna essere estremamente chiari sul punto: coloro che vestono la divisa (o, se permettete, la toga); coloro che rappresentano lo Stato nella primaria funzione di far rispettare la Legge, devono essere I PRIMI ad applicarla nella propria attività, rigorosamente e in ogni circostanza.
È quindi sacrosanta l’indignazione di fronte alle brutali e programmate violenze, compiute da uomini in divisa, che
non possono trovare giustificazione nemmeno nella necessità di contrapporsi ai focolai di rivolta che si erano sviluppati.
Ma è altrettanto doveroso ricordare le condizioni di estrema difficoltà e complessità in cui quotidianamente opera la polizia penitenziaria, e lo fa abitualmente con onore, coscienza e sacrificio personale; con senso di responsabilità, scrupoloso rispetto della dignità personale dei detenuti e consapevolezza di rappresentare lo Stato e i valori che esso rappresenta.
Identica considerazione va poi estesa anche agli altri corpi dello Stato, recentemente colpiti da gravissimi comportamenti interni di violenze ed abusi o da diffuse forme di malcostume: episodi circoscritti che certamente non hanno intaccato la dignità di chi svolge le proprie funzioni con correttezza e dedizione, e si tratta della schiacciante maggioranza.
E questa è oggi anche la condizione della magistratura, profondamente scossa nella propria immagine da comportamenti interni molto gravi, divenuti di pubblico dominio. Ne hanno subito le conseguenze i moltissimi magistrati corretti, scrupolosi (e totalmente estranei ai giochi di palazzo e a ogni tipo di illeciti) i quali devono oggi affrontare un clima di diffuso discredito, connotato da sistematiche e preconcette invettive – come una sorta di «fatwa», che si accompagna al nome di Palamara – rivolte soprattutto da chi, ai livelli e per le ragioni più diverse, non ne gradisce le decisioni.
Ci si deve rendere conto, allora, che la denigrazione generalizzata e indiscriminata delle Istituzioni, soprattutto quelle poste a tutela della legalità, si traduce inevitabilmente in un grande regalo al malaffare di ogni genere – e prima di tutto a quello mafioso – che non ha mai perso l’occasione di sfruttarne ogni momento di indebolimento morale e perdita di autorevolezza, per accrescere la propria pressione malefica sulla collettività sociale.
Per scongiurare i rischi di una deriva del genere è fondamentale non attestarsi su una semplice trincea difensiva: occorre piuttosto che le Istituzioni in crisi si impegnino in un’opera di profonda, reale e impietosa revisione interna,
diretta a eliminare, in modo concreto e permanente, le cause delle gravi distorsioni venute alla luce e del sistema di
connivenze che ne è stato alla radice, consapevoli che d’ora in avanti la loro credibilità sarà misurata proprio dall’efficacia di tale risposta.
Leonardo Agueci – ex procuratore aggiunto di Palermo
Fonte: Giornale di Sicilia