«Chi si occupa dei margini della società si occupa delle frontiere». Una frase, quella dello psicologo dell’emergenza Fabio Sbattella, che sintetizza il valore delle esperienze traumatiche che capitano nella vita e dalle quali si impara a cambiare lo sguardo, oltrepassando la paura del limite e scorgendo la bellezza del valicarlo.
Il tempo del Covid ha avvicinato realtà che abitualmente pensiamo lontanissime. Come nel caso del carcere. Avremmo mai immaginato di provare la sensazione di privazione della libertà che i detenuti sperimentano ogni giorno fino alla fine della loro pena? I lockdown degli ultimi due anni ci hanno immersi in una realtà simile anche se con le dovute distinzioni. Mai come in questo tempo la popolazione degli istituti penitenziari si è trovata unita nel disorientamento, nella preoccupazione, nella solitudine, nella stanchezza, nella sensazione di impotenza. Eppure tutti insieme, detenuti, polizia penitenziaria, medici, avvocati, magistrati, provveditori si sono uniti, hanno puntato alla frontiera e l’hanno oltrepassata insieme.
Questo è uno dei temi approfonditi durante il convegno “Diritti e restrizioni, evoluzioni e rivoluzioni. Il carcere a due anni dalla diffusione della pandemia da Covid-19” che si è svolto lunedì 31 gennaio a chiusura del master in Psicologia penitenziaria e profili criminologici.
Il dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica dal 2020 ha svolto molte ricerche, nominate dalla direttrice Antonella Marchetti, per studiare l’impatto del Covid nei diversi ambiti di vita di anziani, famiglie, organizzazioni, società.
E un’équipe di psicologi si è dedicata ad approfondire la situazione vissuta dai detenuti nella prima fase di lockdown, il periodo caratterizzato dalle rivolte dei detenuti. «Dalle narrazioni che abbiamo avuto la possibilità di analizzare emerge una forte preoccupazione dovuta alla consapevolezza dell’impossibilità di attenersi in modo scrupoloso alle prescrizioni fornite dal nostro governo e dall’OMS – ha spiegato Emanuela Saita, psicologia e direttrice del master in Psicologia penitenziaria -. Nelle fasi iniziali della pandemia le mascherine e il disinfettante non sembravano sufficienti. Oltre a ciò, il carcere – pensato come un luogo che separa il dentro dal fuori in termini di “sicurezza” – non poteva più essere vissuto come un luogo sicuro perché chi entrava e usciva dagli istituti penitenziari (ad esempio gli Agenti) veniva vissuto come un pericolo di contagio».
Queste considerazioni sono state confermate dai relatori intervenuti al convegno. Gli infettivologi Roberto Ranieri e Ruggero Giuliani hanno riportato l’esperienza all’interno del carcere di San Vittore e di Bollate a titolo di esempio nell’adottare tutte le misure di prevenzione, spostare i detenuti che necessitavano di cure ospedaliere, allestire reparti Covid all’interno del carcere e uno speciale all’interno dell’ospedale San Paolo, tracciare il contagio, operazione che in carcere è molto più facile che in qualsiasi ambiente libero. Infatti, durante il primo lockdown i contagi sono stati sotto i 100 su una popolazione di 700mila detenuti.
Il problema sanitario e la preoccupazione del contagio, si evince dalla ricerca, hanno messo in evidenza la paura che non sempre era contenibile perché non si capiva quello che stava succedendo. Un problema serio è stata la gestione della comunicazione. Come ha dichiarato il professor Sbattella, «la comunicazione è ciò che fa esistere risorse e minacce. La rappresentazione della minaccia deve essere ben costruita altrimenti si crea solo panico». Inoltre «il trauma si basa sulla paura nella solitudine. Gli esseri umani sono mammiferi sociali e davanti al pericolo lo guardano meglio per capire, e se stanno bene sanno chiedere aiuto. La nostra forza è la relazione, la solidarietà».
Un concetto ripreso dal dottor Ranieri che ha spiegato come il personale penitenziario sia diventato un supporto al personale sanitario, partecipando ad attività specifiche come per esempio la vestizione tipica di medici e infermieri per accompagnare i detenuti. In modo solidale, ciascuno ha imparato a rivedere la propria immagine e il proprio ruolo.
Al convegno hanno portato la loro testimonianza anche Francesca Valenzi, Dirigente Ufficio Detenuti e Trattamento, e Maria Pitaniello, direttrice della casa circondariale monzese. Sono stati sottolineati la fatica, il disorientamento di fronte a un’emergenza già dichiarata nella Gazzetta Ufficiale il 31 gennaio 2020 ma che nessuno aveva preso in considerazione. E ancora la fondamentale importanza di lavorare insieme per avviare provvedimenti nuovi e di comprendere lo scetticismo, la diffidenza e la rabbia dei detenuti nei confronti dell’istituzione.
Giovanna Di Rosa, presidente dell’Ufficio di sorveglianza di Milano, è intervenuta sulle problematiche relative ai provvedimenti da adottare di fronte all’emergenza come la scelta della scarcerazione in caso di pene molto brevi per far fronte al problema del sovraffollamento nelle carceri, che in emergenza rappresentava un’aggravante. Per garantire il diritto alla salute è stato fondamentale sovvertire alcune regole ordinarie nel sistema penitenziario, come ha precisato Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Milano.
Infine, del tema delle rivolte all’inizio della pandemia ha parlato il provveditore di Milano Pietro Buffa che ha attribuito una valenza politica alle rivendicazioni della libertà da parte dei detenuti. «Il virus è stato usato come clava, uno strumento primitivo per far valere un proprio pensiero, non chiedendo un reale confronto ma esprimendo una pretesa». La protesta vista dunque come l’espressione di un mal contento già in essere in carcere e di ideologie pregresse che hanno trovato nel virus l’occasione per emergere.
«Il virus è sbocciato come un germoglio del male, quasi alla fine dell’inverno, a cavallo con quella che dovrebbe essere una delle più belle stagioni in assoluto: la primavera. Ma dare spazio all’espressione personale relativa ad eventi così come soggettivamente esperiti consente di comprendere che quel germoglio, apparentemente nocivo, ci dimostra che vi è sempre vita». Le parole conclusive della professoressa Saita hanno riportato la speranza e un pensiero costruttivo nella consapevolezza che dal male può nascere sempre il bene.