Nel 2020 il ministero dell’Economia ha emesso 750 ordinanze di pagamento per risarcire le persone che erano state detenute ingiustamente in carcere: complessivamente i risarcimenti sono costati 36 milioni e 958 mila euro, mentre nell’anno precedente 43,4 milioni.
I dati sono stati pubblicati nella “Relazione al Parlamento per il 2020”, un report annuale realizzato dal ministero della Giustizia, e mostrano con chiarezza uno degli effetti causati dal notevole ricorso alla custodia cautelare in carcere, che in Italia è la misura più utilizzata (riguarda il 30,3 per cento delle misure cautelari) nonostante la legge la consideri un provvedimento di extrema ratio. Incidendo sulla libertà personale di persone “non colpevoli fino a sentenza definitiva”, la custodia cautelare in carcere dovrebbe essere disposta con estrema prudenza, solo quando le altre misure coercitive risultino inadeguate, ma questo principio è poco applicato dai giudici, che nel 2020 hanno deciso la carcerazione preventiva per 24.928 persone.
Spesso la custodia cautelare dura mesi o anche anni e i dati sulle carcerazioni ingiuste, piuttosto freddi, aiutano solo in minima parte a comprendere le conseguenze che queste decisioni hanno sulla vita delle persone detenute ingiustamente e su quella delle loro famiglie. Sono comunque dati importanti per dare una dimensione a un problema di cui si parla poco e che riguarda anche le condizioni delle carceri in Italia, un paese con un tasso di sovraffollamento altissimo, oggi pari al 106,2 per cento.
La riparazione per ingiusta detenzione garantisce alla persona imputata il diritto ad ottenere un’equa riparazione per la detenzione subita ingiustamente prima del processo, in seguito a un proscioglimento secondo le diverse modalità del sistema giudiziario italiano: quando “il fatto non sussiste”, per “non aver commesso il fatto”, perché “il fatto non costituisce reato” o “non è previsto dalla legge come reato”. Questa riparazione non va confusa con l’errore giudiziario che si verifica quando una persona viene riconosciuta innocente dopo una sentenza di condanna, in seguito a un nuovo processo chiamato “di revisione”.
L’indennizzo massimo è stato quantificato in un miliardo di lire, oggi 516 mila 456 euro e 90 centesimi, per la durata massima della custodia cautelare in carcere, che è di sei anni. In linea generale, è previsto un indennizzo di 235 euro per ogni giorno di detenzione ingiusta in carcere e 117 euro per ogni giorno trascorso agli arresti domiciliari.
Nella relazione del ministero viene segnalato un calo delle domande accolte, passate dalle mille del 2019 a 750 nel 2020, e che tra le ordinanze definitive, senza la possibilità di impugnazione, 203 sono seguite a sentenze di proscioglimento e 80 a casi di riparazione per illegittimità dell’ordinanza cautelare.
Molte delle pronunce di accoglimento seguite alle detenzioni ingiuste hanno riguardato le Corti d’Appello nelle regioni del Sud.
Sui 37 milioni di euro complessivi, 7,9 milioni di euro sono stati pagati per le 90 pronunce di accoglimento seguite alle custodie cautelari disposte dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, mentre sono stati pagati 4,3 milioni a Palermo, che è la Corte d’Appello con l’importo medio più alto: 95.647 euro. A Napoli le detenzioni ingiuste sono state 101 per 3,1 milioni di indennizzi, a Roma 77 per 3,5 milioni di euro.
Sono dati piuttosto significativi, anche se per avere un confronto più completo sarebbe opportuno rapportare gli indennizzi sul totale dei provvedimenti di carcerazione preventiva delle singole Corti d’Appello, non riportati nella relazione del ministero.
Analizzando la distribuzione territoriale, il presidente della Corte d’Assise di Reggio Calabria, Roberto Lucisano, ha notato che le corti in cui sono state liquidate le somme più alte sono quelle nelle quali si celebra un numero rilevante di maxiprocessi contro la criminalità organizzata, nell’ambito dei quali spesso si registra un divario significativo tra il numero di persone per cui viene decisa la custodia cautelare e quello di coloro che poi vengono condannati con sentenza definitiva. Questo divario è dovuto soprattutto ai tempi molto lunghi dei processi.
«Si tratta di procedimenti che per il numero degli imputati, la mole delle contestazioni, la complessità dell’attività istruttoria che li accompagna, si protraggono spesso per diversi anni», ha scritto Lucisano in un articolo pubblicato da Questionegiustizia. «E non è raro che si arrivi all’assoluzione ed alla conseguente scarcerazione del soggetto solo dopo che la Cassazione ha pronunciato sentenza di annullamento con rinvio».
Secondo Lucisano, l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, che porta ad avere un rischio più alto di detenzioni ingiuste, è anche dovuto all’identificazione dell’inchiesta come momento centrale sia da parte dell’opinione pubblica, sia di chi dirige le indagini. «Si è verificato un clamoroso rovesciamento di prospettiva», ha spiegato Lucisano. «Come se, acquisita la verità dei fatti e delle responsabilità nella fase delle indagini, tale certezza storica debba essere necessariamente recepita nel processo, magari constatando con scalpore che in qualche caso le decisioni del giudice non siano state pienamente (o per nulla) conformi alle richieste dell’accusa».
Tra i dati più interessanti riportati dalla relazione del ministero ci sono anche quelli relativi ai procedimenti disciplinari che hanno coinvolto magistrati in seguito alle pronunce di ingiusta detenzione. Negli ultimi tre anni sono state promosse 61 azioni di illecito disciplinare, di cui 57 avviate dal ministero della Giustizia e 4 dalla procura generale della Cassazione. A questi procedimenti sono seguite quattro censure. Gli altri casi sono stati conclusi con 12 assoluzioni, 17 “non doversi procedere”, mentre 25 risultano ancora in corso.
Nella relazione, il ministero avverte però che il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non può essere ritenuto di per sé un indice di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto perché gli istituti riparatori, che valutano le richieste di indennizzo, hanno «presupposto e obiettivi diversi e operano su piani distinti ed autonomi rispetto a quello della responsabilità disciplinare dei magistrati».
Tratto da: ilpost.it
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