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Rebibbia, il G124 di Renzo Piano conclude la «casa dell’affettività» per l’incontro delle detenute con i propri cari

Nella casa circondariale femminile nasce un luogo intimo, dove recuperare la naturalezza di un semplice gesto d’affetto. Il G124 ha portato a termine, con il supporto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un luogo dove le madri detenute potranno incontrare i loro cari, bambini compresi. Uno spazio domestico costruito con l’aiuto dei detenuti.

Consentire l’affettività in carcere, in quanto diritto fondamentale e incancellabile per chi vive in regime di reclusione. Diritto che ha a che fare con la dignità umana, con i bambini, vittime incolpevoli, e con la necessità – fondamentale per la buona riuscita del percorso rieducativo – di garantire la continuità dei legami affettivi per detenute e detenuti. Affronta un tema universale – e di altissimo valore civile e morale – la «casa dell’affettività» che il gruppo G124 ha realizzato all’interno della casa circondariale femminile di Rebibbia.

È stata terminata la micro-architettura di legno, nata su impulso e su progetto del gruppo G124 – Roma, composto dai giovani architetti Tommaso MarenaciAttilio Mazzetto e Martina Passeri, coordinati da Pisana Posocco, docente di progettazione architettonica all’Università Sapienza (Dipartimento Architettura e Progetto). I tre borsisti hanno lavorato sotto la guida di Renzo Piano nell’ambito dell’iniziativa del G124, concentrata su piccoli interventi nelle periferie, avviata dall’architetto genovese non appena è stato (nel 2013) nominato senatore a vita.

Il progetto di Rebibbia è stato finanziato e sostenuto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), e ha contato sulla preziosa collaborazione di Carmelo Cantone, provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise e di Ettore Barletta, architetto e capo dell’Ufficio tecnico del Dap (ufficio che ha diretto fino allo scorso 15 giugno quando è stata attuata la rotazione dei dirigenti).

Una casa per esercitare il diritto all’affettività e alla genitorialità

La micro-architettura prende il nome di M.A.MA., acronimo di Modulo per l’Affettività e la Maternità. Si tratta di uno spazio abitativo di 28 mq, immerso nel verde del giardino dell’Istituto. Un luogo dove le detenute potranno riunirsi (non appena l’emergenza Covid si sarà placata) con i propri familiari, beneficiando di un ambiente domestico, intimo, accogliente e rassicurante, molto diverso dalle tradizionali, affollate e fredde, aule per i colloqui.

La detenzione non può (e non deve) spazzare via il diritto all’affettività. Mantenere e valorizzare le relazioni affettive è fondamentale per la buona riuscita del percorso rieducativo e per il reinserimento nella comunità. Che un soddisfacente contatto con il mondo esterno possa prevenire l’alienazione dell’individuo e abbassare la probabilità di recidiva è, inoltre, ormai un’evidenza acquisita. Nelle carceri mancano però spazi che possano pienamente soddisfare tale diritto, che include anche il diritto alla genitorialità. Si tratta di un tema anche piuttosto drammatico se lo si osserva dal lato delle vittime incolpevoli: i bambini (sono circa 100mila i minori ogni anno interessati dal dramma della reclusione di un genitore).

È un tema estremamente delicato, e ancora non risolto, quello affrontato con la casa dell’affettività di Rebibbia, che ha tutte le carte in regola per poter essere definito pionieristico, anche per il suo carattere di prototipo, tra l’altro pensato per essere replicabile. Nasce un luogo diverso, intimo, dove poter recuperare la naturalezza di un semplice gesto d’affetto.

Una «casa» per celebrare un momento familiare e compensare la lontananza da casa

«C’è un dato fondamentale da tenere in considerazione», spiega Pisana Posocco: «Le donne – riferisce la professoressa – rappresentano circa il 4% della popolazione carceraria. E questo è un dato stabile nel tempo ed anche geograficamente omogeneo in Italia. Quindi le detenute non sono molte e spesso sono nelle sezioni femminili delle carceri maschili, mentre gli istituti esclusivamente femminili sono solo cinque (Trani, Pozzuoli, Roma Rebibbia, Empoli, Venezia Giudecca, nda). In questi istituti, come a Rebibbia, non è quindi difficile trovare casi in cui le detenute sono lontane dai loro luoghi di origine e dunque anche dai rispettivi nuclei familiari. Inoltre la legge permette a queste persone di accorpare i colloqui a cui hanno diritto, prolungandone la durata. Da qui l’idea di creare un luogo in cui le detenute potessero celebrare un momento familiare, in un ambiente che permette – mi piace dire, aggiunge – di evadere mentalmente per un momento, vivendo una situazione che avvicina al mondo esterno».

«Si usa l’espressione “territorializzare la pena”, per descrivere il tentativo di avvicinare i detenuti alla loro famiglia o nucleo di riferimento. Spesso, però, le donne per stare meglio – ad esempio nel carcere di Rebibbia vengono offerte molte possibilità formative e di reinserimento lavorativo – si trovano a dover stare molto lontane dalla famiglia. Noi abbiamo scelto Rebibbia, e in particolare un carcere femminile, per tentare di compensare questo aspetto negativo della lontananza», rimarca Pisana Posocco.

Un prototipo realizzato da detenute di Rebibbia e da detenuti del carcere Mammagialla di Viterbo

Il piccolo prototipo è stato pensato per essere realizzato direttamente dai detenuti. Ogni componente ha un peso limitato, è facilmente maneggiabile e trasportabile. Non occorre manodopera specializzata, il montaggio è abbastanza semplice e la finitura può essere realizzata in opera.

Le parti in legno sono state realizzate dalla falegnameria della casa circondariale di Viterbo. «Abbiamo voluto sfruttare le attività laboratoriali esistenti, optando per la prefabbricazione in laboratorio ed il montaggio sul posto», racconta Tommaso Marenaci. «Sin dall’inizio le nostre scelte erano orientate all’ottenimento di un prototipo replicabile in altri istituti carcerari. E il legno ci è sembrata la scelta più opportuna vista la presenza diffusa delle falegnamerie nelle carceri italiane. All’interno, la stessa struttura è riprodotta più volte e questo semplifica il lavoro. Inoltre, si è cercato di ottimizzare il più possibile l’uso del materiale, la quantità dei tagli e delle lavorazioni», aggiunge Attilio Mazzetto.

Gli esecutivi sono stati adattati alle capacità e alle macchine della falegnameria. Sin dai primi passi, il progetto ha inoltre mantenuto la forma archetipa della capanna. Una forma che rimanda immediatamente allo spazio domestico, anche giocosa, e che nell’immaginario di ciascuno evoca un senso di protezione. La struttura è stata montata anche con l’aiuto di ditte esterne, ma sul posto hanno lavorato anche tre detenuti del carcere di Viterbo, per l’occasione trasferiti a Rebibbia, e cinque detenute dell’istituto romano.

Un prototipo replicabile

«Siamo giunti alla realizzazione di un prototipo, che potrà anche essere migliorato», aggiunge Marenaci. «Abbiamo optato per un sistema costruttivo a secco. In particolare, abbiamo utilizzato un telaio strutturale di legno lamellare e pannelli, sempre di legno, per il rivestimento sia esterno che interno. Quindi sono stati utilizzati pannelli in Usb a tamponare l’esterno, poi un isolamento, e dei pannelli invece in legno di pino per l’interno, sempre in linea con l’idea di ottenere un interno di qualità. I pannelli in legno sono stati protetti all’esterno da una malta cementizia bicomponente ad elevata elasticità armata con tessuto in propilene, da un fondo primer e infine da una pittura arancione elastomerica», aggiunge Martina Passeri. La progettazione strutturale è stata realizzata in collaborazione con Francesco Romeo, ingegnere e professore del Dipartimento di Ingegneria strutturale e geotecnica dell’Università Sapienza.

Il piccolo nucleo è formato da una piccola loggia di ingresso, e all’interno: una zona pranzo con cucina, un piccolo soggiorno e un bagno. Il lavoro ha incluso anche la sistemazione esterna con la collaborazione della paesaggista Cristina Imbroglini. Si è voluto ricreare una sorta di radura boschiva, ritornando sull’idea di protezione. Sono stati messi a dimora degli alberi ed è stato preparato un piccolo campo di frutti di bosco, soprattutto ribes, che i bambini potranno raccogliere. Essenziale per la scelta delle piante è stato il contributo degli agronomi di Rebibbia. Per la messa a dimora è stata chiamata una ditta esterna, così come per la realizzazione della platea di fondazione e il montaggio delle strutture portanti.

Il provveditore Cantone: «Un progetto esemplare, con valenza etica e morale di grande portata»

«Questo progetto ha una sua forza particolare, che si esprime su due versanti», spiega Carmelo Cantone, attualmente provveditore dell’Amministrazione penitenziaria di Lazio, Abruzzo e Molise, con alle spalle una lunga carriera nell’amministrazione penitenziaria (ha tra l’altro ricoperto il ruolo di direttore di Rebibbia – Nuovo complesso).

Il progetto della casa dell’affettività, rappresenta – afferma Cantone – «un’analisi assolutamente originale della concezione degli spazi penitenziari». E questo è il primo punto di forza secondo il provveditore. «Noi come amministrazione penitenziaria – spiega – certamente abbiamo il problema di uscire fuori da un certo modo di concepire gli spazi della pena. L’edilizia penitenziaria, anche dei cosiddetti nuovi complessi degli anni ’80-’90, ha avuto difficoltà a concepire, all’interno degli spazi della pena, delle architetture diverse che venissero incontro, perché si può, non tanto alle istanze penitenziarie, ma all’utilizzo. Mi spiego meglio: la progettazione di uno spazio, come una palestra o uno spazio per l’accoglienza dei bambini, non sempre necessariamente deve essere condizionata dal trovarsi all’interno del recinto del carcere. Questo progetto in questo senso è esemplare: la casetta costituisce ben altro rispetto a quello che sono i normali tipi di costruzione penitenziaria».

«Poi c’è l’altro valore fortissimo che è quello di entrare all’interno di spazi dove si valorizzano, come in questo caso, l’accoglienza e il rapporto tra madri e bambini. Questo è lo specifico dell’operazione che ha ovviamente una sua valenza etica e morale di grande portata». Seppure si siano fatte sperimentazioni per l’umanizzazione delle carceri, l’esperienza della casa dell’affettività, «è del tutto eccezionale, sicuramente non appartiene alla regola», riferisce ancora Cantone.

Quanto alla possibilità di replicare il prototipo romano, «sicuramente si può pensare di investire sui cosiddetti nuovi complessi cioè quegli istituti che seppure abbiano 30-40 anni di vita vengono denominati nuovi complessi, in quanto hanno la caratteristica di avere degli spazi aperti da poter sfruttare per replicare l’esperienza», chiosa il provveditore.

Un nuovo modello che impone attenzione verso chi il carcere lo subisce senza avere colpa: i bambini

«Si tratta di un caso sperimentale e di sicuro uno dei suoi pregi risiede nella sinergia creatasi tra la pubblica amministrazione, quindi l’amministrazione penitenziaria, l’università, con la speciale collaborazione di Renzo Piano, che ha voluto visitare il cantiere», racconta Ettore Barletta, dirigente del Dap.

«È stata un’esperienza davvero importante – continua l’architetto -, che intanto ha aperto l’istituto al contesto esterno, ed ha dimostrato che è possibile realizzare interventi che – seppure su scala minimale – non solo sono ripetibili in altri istituti, ma impongono una nuova attenzione per esempio nei confronti di chi il carcere lo subisce, mi riferisco ai bambini, che oltre una certa età vengono a visitare le madri detenute (al di sotto dei tre anni i bambini generalmente vivono in carcere con le madri, nda) ed hanno la necessità di ricostruire un ambiente familiare».

 

Fonte: professione architetto.it

Redazione OSAPPoggi

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