Già detenuti, le persone indagate sono accusate di aver organizzato la rivolta e dunque di “devastazione e saccheggio”, anche “aprendo le celle dei detenuti e prendendo attivamente parte alla sottrazione dei medicinali nelle infermerie e alla distruzione dei locali”. Al momento non ci sono riscontri sulle ipotesi di una “regia comune” con le altre rivolte registratesi nei carceri in giro per l’Italia, “ma su questo punto si continuerà ad approfondire”, fanno sapere gli inquirenti.
Un intero piano della casa circondariare devastato. Incendi, vetrate spaccate, bidoni della spazzatura dati alle fiamme e anche un tentativo di sfondare un cancello con un ariete. Una rivolta in piena regola, avvenuta fra il 7 e il 9 marzo, i cui organizzatori questa mattina sono stati “arrestati”, pur trovandosi già in galera. Sono 9, in totale, i detenuti individuati come i promotori dei disordini nel carcere di Rebibbia a Roma, accusati di “devastazione e saccheggio”, anche “aprendo le celle dei detenuti e prendendo attivamente parte alla sottrazione dei medicinali nelle infermerie e alla distruzione dei locali”, oltre a “inneggiare alla violenza, assumendo un ruolo di primo piano nella guida e nello sviluppo della rivolta”.
Fra i presunti “promotori” della rivolta anche Leonardo Bennato, arrestato durante l’operazione ‘Grande Raccordo Criminale’, la maxi-inchiesta che nel 2019 ha svelato una maxi-organizzazione di traffico internazionale di droga capeggiata – secondo gli inquirenti – da Fabrizio ‘Diabolik’ Piscitelli, lo storico capo ultras della Lazio ucciso nell’agosto 2019, e il suo braccio destro Fabrizio Fabietti. In quell’occasione Bennato è stato accusato di aver fornito, il 6 aprile 2018, un contributo ai picchiatori che hanno teso un agguato all’albanese Anxhelos Mirashi (detto “Angioletto”), “colpevole” di non aver saldato i debiti maturati nell’ambito del traffico di droga. Fra gli indagati, un altro personaggio noto alle cronache malavita romana: secondo le indagini è riconducibile a lui l’arsenale trovato in una cantina della periferia ovest della Capitale, con ben sei chili di tritolo, un kalashnikov, tre mitragliatori, un fucile a canne mozze, diverse semiautomatiche e anche alcuni revolver. Fra gli arrestati anche Vincenzo Bova, classe 1993, arrestato nel 2016 nell’ambito di un’altra vasta operazione antidroga nel quartiere Tor Bella Monaca di Roma.
La rivolta al reparto G11 si è tradotta anche in violenze nei confronti degli agenti penitenziari. I detenuti in “fuga” sul piano, infatti, a un certo punto avevano “accerchiato e aggredito, colpendo con calci e pugni, l’assistente Patrick Menicucci, facendolo cadere a terra”. Una volta sottratte le chiavi al poliziotto, i detenuti avrebbero poi “sequestrato” altri agenti chiudendo il cancello del reparto alle loro spalle. Non solo. Bennato e altre cinque persone si sono poi accaniti contro l’infermeria, “devastando” e “saccheggiando” tutto ciò che trovavano, oltre ad aver danneggiato il sistema di sorveglianza. Gli agenti della Polizia Penitenziaria hanno subito traumi di varia natura, fra cui contusioni e, per un poliziotto, la rottura del legamento crociato.
Le indagini della Procura di Roma, assegnate ai pm Eugenio Albamonte e Francesco Cascini, proseguono. Al momento, non ci sono riscontri sulle ipotesi di una “regia comune” con le altre rivolte registratesi nei carceri in giro per l’Italia, “ma su questo punto si continuerà ad approfondire”, fanno sapere gli inquirenti. Allo stesso modo, i 55 indagati erano già tutti in carcere al momento della rivolta, mentre negli atti non ci sono riferimenti a possibili fiancheggiatori esterni.