Non sono un’eccezione. E il 2022 rischia di essere anno nero. Dieci dei sessantacinque suicidi registrati da gennaio ad oggi sono avvenuti in Sicilia. Due – ed è anomalia rispetto alle statistiche – sono donne. E questo senza considerare i presunti decessi naturali o i cosiddetti “casi da accertare” – l’ultimo è di due giorni fa all’Ucciardone – che farebbero balzare le vittime a quota diciotto.
“Per capire davvero cosa stia succedendo, basta fare i conti – dice il garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma – in Sicilia c’è una popolazione carceraria che non supera i seimila detenuti, ma contiamo già dieci suicidi. Se rapportiamo queste cifre al numero di siciliani che nello stesso periodo si è tolto la vita fuori, ci rendiamo conto che dietro le sbarre il tasso di suicidi aumenta almeno di venti volte”. Numeri da capogiro, che in filigrana, se possibile, fanno ancor più impressione. In tutta Italia, la Sicilia è la seconda regione per numero di detenuti che si tolgono la vita, seconda solo alla Lombardia che ne conta quattordici. Peccato però che lì ci siano almeno duemila persone in più dietro le sbarre.
“C’è un problema generale Italia – spiega Palma – e c’è un problema aggiuntivo Sicilia”. Da Nord a Sud, sovraffollamento, mancanza di servizi, strutture spesso fatiscenti, sono una costante. Così come costante è lo stigma sociale per chi esce di cella e prova a reinserirsi in società. “Ma fatte salve alcune fortunate eccezioni – sottolinea Palma – in Sicilia il principale problema è la totale mancanza di progettualità”.
Non che il sovraffollamento non ci sia. Sui 23 istituti siciliani, almeno quattro – Augusta e Castelvetrano con il 140 per cento, Gela con il 141,6 per cento, Catania Bicocca con il 142,6 percento – superano la capienza massima prevista dalla legge. Ma ovunque, dice sempre il garante nazionale, da poco reduce da un’ispezione a Marsala, “per la maggior parte dei detenuti il tempo passato in carcere è tempo vuoto, inutile”. Ed è parentesi pericolosa: è lì che le dinamiche criminali si riproducono e il carcere diventa luogo di reclutamento. Ma soprattutto è lì che i fragili lo diventano ancora di più. Dietro le sbarre sono la maggioranza.
“Perché è un inferno povero. Personalmente, di rado dentro ho incontrato gente che si possa permettere un buon avvocato. La popolazione carceraria più è fatta per lo più da soggetti socialmente vulnerabili e sono quelli maggiormente a rischio suicidio”, commenta Pino Apprendi, ex consigliere regionale e volto dell’associazione Antigone in Sicilia. Per lui il problema non è semplicemente di condizioni di detenzione, ma di sistema. Rita Barbera, per 35 anni direttrice di istituti di pena, conosce le falle dall’interno.
Ed è convinta: “Non ci potrà mai essere una soluzione, fin quando in carcere continuerà a finire anche chi commette reati “bagatellari”, magari perché tossicodipendente, affetto da disturbi psichici o socialmente emarginato. Servirebbero altri percorsi, in cella queste persone non ci dovrebbero neanche entrare”. Eppure sono la maggioranza. Al pari degli stranieri, spesso ancora più marginalizzati in un sistema “costruito attorno alla famiglia. Da mesi – dice Richard Braude del circolo Arci Porco Rosso – proviamo a far visita ad un ragazzo del Ciad e uno del Senegal che come associazione conosciamo benissimo, ma non possiamo. Non siamo familiari”. E in assenza di mediatori culturali – solo di recente ne sono stati assunti alcuni – anche manifestare un disagio, chiedere una visita medica, contattare la famiglia lontana è un problema.
Ma fondi non ce ne sono. Così come mancano per gli psicologi, a carico delle Asp territoriali e fra le prime voci di budget ad essere tagliate. Chi può rimedia con i precari, pagati a prestazione e con contratti di un anno o poco più. Risultato, per i soggetti a rischio la continuità assistenziale non esiste. E peggio va a chi ha necessità di cure psichiatriche.
In Sicilia ci sono 140 detenuti in lista per le Rems, le strutture sanitarie per chi soffre di turbe psichiche. Ma nell’Isola sono solo due, tutte nella parte orientale, e in media per entrarci ci vogliono 458 giorni. Un’eternità. E sono tanti, troppi – con un lenzuolo trasformato in cappio, o una lametta nascosta bene – ad abbandonare la coda e la vita, stanchi di attendere una risposta dallo Stato. Che spesso dietro le sbarre non c’è.