Come vengono scelte, di volta in volta, le persone detenute che lavorano con voi?

Quello di Alessandria è sia un istituto di pena che una casa circondariale, diventati ormai un unico circuito. Generalmente inoltriamo una richiesta all’amministrazione penitenziaria rendendo noto il profilo che ci interessa, dopodiché gli educatori selezionano le persone più idonee. Per quanto riguarda i falegnami, ad esempio, vengono valutate le caratteristiche di coloro che hanno preso parte ai corsi di formazione, nel caso in cui non si trovasse nessuno si passa a un interpello interno, altrimenti – cosa mai accaduta finora – ci si rivolge ad altre carceri.

Per la bottega, invece, abbiamo chiesto di poter assumere ragazzi che avessero già maturato esperienza come addetti alle vendite in passato, o che avessero sviluppato una buona capacità di interfacciarsi con le persone. Dopo la selezione passiamo a un colloquio conoscitivo al quale segue una settimana di prova, necessaria per comprendere se chi decide di proporsi sente di voler intraprendere questo percorso con entusiasmo e serietà. Stabiliti questi presupposti avviamo tirocini formativi oppure, nel caso di un rapporto di lavoro più duraturo, ricorriamo alla Legge Smuraglia.

Avete mai avuto la possibilità di offrire un lavoro al termine della pena, quindi dopo l’uscita dal carcere?

Questo è il prossimo passo, al momento stiamo lavorando per mettere in produzione una falegnameria esterna. Ci sarebbe piaciuto trattenere persone nelle quali abbiamo riconosciuto grandi capacità, che fortunatamente sono riuscite a trovare lavoro in altre falegnamerie.

Intanto prima del lockdown la bottega era totalmente gestita da Michele, un ragazzo che grazie all’art. 21 O.P. – ossia la possibilità di svolgere attività lavorativa durante il giorno e tornare in carcere soltanto alla sera – è stato affidato a noi. È una bella soddisfazione, il coronamento dell’intero progetto.

Il carcere condanna – o almeno ci prova – all’immobilismo e impiegare il tempo in maniera produttiva non è sempre facile. Secondo la tua esperienza, avere un impiego o prendere parte a un progetto di utilità sociale può cambiare la percezione di sé?

Attualmente stiamo inserendo un nuovo detenuto all’interno della falegnameria e proprio lui mi parlava di quanto sia vitale non spendere intere giornate rinchiuso in una cella. Può sembrare una sciocchezza dall’esterno, ma impegnarsi in un’attività manuale vicina alle proprie capacità o anche soltanto poter stare insieme al di là di quelle mura ha un altro sapore.

Quando accolgo qualcuno per il suo primo giorno di lavoro quasi non parlo per permettergli di ambientarsi e capire dove si trova, il secondo giorno chiedo come va, il terzo spiego che la cosa importante non è tanto la produttività svelta quanto creare un ambiente sereno e star bene all’interno della falegnameria.

Fa sorridere guardarli mentre si arrabbiano perché pensano di poter fare meglio, di fronte alla verniciatura non proprio perfetta o a un pezzo troppo ruvido, in quel momento capisci che sono entrati nella filosofia del progetto e si sta iniziando a costruire qualcosa.

Prima di salutarti mi piacerebbe chiederti se c’è un messaggio che vorresti diffondere

Il carcere è un mondo che non conoscevamo, un microcosmo di storie diverse. Confrontarsi con persone che sanno di aver sbagliato e vogliono riscattarsi è un’esperienza interessante. Aiutarle in questo percorso, toccare con mano i loro miglioramenti è veramente qualcosa che dà soddisfazione.