Il carcere prevede una pena accessoria alla quale sembra impossibile sfuggire: l’invisibilità.
Superare il cancello che ne disegna il confine vuol dire approdare in una dimensione che manca ancora di parole per essere narrata nella sua infinita complessità.
Con Andrea Ferrari, Presidente dell’Associazione Ises attiva nel carcere “Cantiello e Gaeta” di Alessandria nonché ideatore del progetto SocialWood e del marchio Fuga di Sapori, abbiamo riflettuto sulla necessità di creare un dialogo tra il “dentro” e il “fuori”, due entità che hanno dimostrato di avere tanto da dirsi nonostante i tentativi di tenerle separate.
Parlaci del vostro progetto. Come nasce SocialWood e, successivamente, Fuga di Sapori?
Dopo esserci avvicinati al carcere partecipando in partnership con altre associazioni a progetti legati allo sport e alla corretta alimentazione, abbiamo cercato di capire insieme agli educatori se ci fosse la possibilità di realizzare qualcosa di nostro.
La casa circondariale di Alessandria nel 2015 ospitava una falegnameria didattica utilizzata per quattro mesi l’anno al fine di svolgere corsi di formazione destinati alle persone detenute. Dal desiderio di rendere produttivo questo laboratorio e generare un’impresa sociale è nato SocialWood, il nostro progetto principale con il quale ci proponiamo di formare i detenuti che partecipano per poi offrire ai migliori un’opportunità lavorativa. In falegnameria si producono oggetti con materiale di recupero e nel tempo sono state realizzate, tra le altre cose, biblioteche per comuni limitrofi e fondazioni locali, ma anche mobili destinati ad enti pubblici e a soggetti privati, con l’idea di recuperare persone e materiali.
Come tutte le cose belle anche questo progetto si è sviluppato. Così una sera, uscendo dal carcere, abbiamo notato due garage inutilizzati sul muro di cinta e, quasi per gioco, abbiamo pensato che sarebbe stato bello trasformarli in un negozio in cui esporre ciò che viene realizzato all’interno. Un proposito nato tra il serio e il faceto ci ha portato ad aprire, due anni fa, la prima bottega solidale all’interno di un carcere italiano.
Dopo averla arredata con mobili prodotti dalla falegnameria ci siamo ritrovati a doverla riempire e attraverso il contatto con altre cooperative è venuto alla luce un mondo di produzioni alimentari di altissimo livello. Con la nostra Associazione abbiamo iniziato ad acquistare prodotti dalle carceri italiane per farli conoscere alla cittadinanza, unendo il sociale all’artigianato. Da qui è nato il marchio Fuga di Sapori, che si propone di promuovere quanto di buono viene realizzato nelle carceri finanziando al contempo progetti sociali grazie alle vendite.
Quali sono i prodotti esposti nella vostra bottega e quali enti del terzo settore state sostenendo?
Abbiamo il pane di San Michele, il secondo carcere di Alessandria, i biscotti di varie cooperative siciliane e del carcere di Vicenza, la pasta dell’Ucciardone. Sperimentando con diversi prodotti abbiamo realizzato delle produzioni la cui vendita ci permette di finanziare alcuni progetti sociali oltre SocialWood. Con le vendite della birra aromatizzata alla camomilla del carcere di Pozzuoli, che abbiamo chiamato “Skizzata”, sosteniamo Me.Dea, il centro antiviolenza sulle donne della provincia di Alessandria; la crema spalmabile al cioccolato con il caffè, ideata durante il picco dell’emergenza Covid-19, invece, ci aiuta a finanziare progetti di ricerca all’interno dell’ospedale di Alessandria effettuati dalla Fondazione Solidal.
Insomma, con tutti i nostri prodotti cerchiamo di sostenere la nostra città e di fare rete con altre associazioni.
Uno dei problemi maggiori del carcere è l’invisibilità a cui condanna le persone detenute e spesso, attraverso il volontariato, l’obiettivo che ci si pone è quello di creare un ponte tra la realtà interna e quella esterna. Come è stato accolto il vostro lavoro dalla cittadinanza?
Quella della casa circondariale di Alessandria è una storia buia per certi versi. Negli anni Settanta ha preso piede una rivolta che ha generato dei morti e la città ha girato un po’ le spalle a questa realtà, la nostra sfida è stata quella di dare una nuova connotazione allo stabile, che tra l’altro a differenza di altre carceri si trova proprio nel centro città.
Inizialmente le persone erano diffidenti, alcuni mostravano il documento pensando che fosse necessario registrarsi. Con il tempo oltre a raccontare il progetto abbiamo iniziato a raccontare chi lo anima e ora, dopo aver abbattuto le barriere del sospetto, siamo riusciti a creare una bottega di quartiere nella quale le persone ci raccontano le loro storie. La sede della nostra Associazione è diventata un luogo polifunzionale. Abbiamo organizzato spettacoli teatrali, realizzato mostre e ospitato un rapper che ha iniziato a scrivere le sue canzoni all’interno del carcere, dandogli la possibilità di esibirsi di fronte a un pubblico.
Non potendo garantire il distanziamento ora questo spazio culturale è chiuso ma noi non ci siamo fermati e proprio durante il lockdown è nato l’e-commerce, abbiamo creato un sito grazie al quale è possibile acquistare i nostri prodotti online https://www.fugadisapori.it/
Come vengono scelte, di volta in volta, le persone detenute che lavorano con voi?
Quello di Alessandria è sia un istituto di pena che una casa circondariale, diventati ormai un unico circuito. Generalmente inoltriamo una richiesta all’amministrazione penitenziaria rendendo noto il profilo che ci interessa, dopodiché gli educatori selezionano le persone più idonee. Per quanto riguarda i falegnami, ad esempio, vengono valutate le caratteristiche di coloro che hanno preso parte ai corsi di formazione, nel caso in cui non si trovasse nessuno si passa a un interpello interno, altrimenti – cosa mai accaduta finora – ci si rivolge ad altre carceri.
Per la bottega, invece, abbiamo chiesto di poter assumere ragazzi che avessero già maturato esperienza come addetti alle vendite in passato, o che avessero sviluppato una buona capacità di interfacciarsi con le persone. Dopo la selezione passiamo a un colloquio conoscitivo al quale segue una settimana di prova, necessaria per comprendere se chi decide di proporsi sente di voler intraprendere questo percorso con entusiasmo e serietà. Stabiliti questi presupposti avviamo tirocini formativi oppure, nel caso di un rapporto di lavoro più duraturo, ricorriamo alla Legge Smuraglia.
Avete mai avuto la possibilità di offrire un lavoro al termine della pena, quindi dopo l’uscita dal carcere?
Questo è il prossimo passo, al momento stiamo lavorando per mettere in produzione una falegnameria esterna. Ci sarebbe piaciuto trattenere persone nelle quali abbiamo riconosciuto grandi capacità, che fortunatamente sono riuscite a trovare lavoro in altre falegnamerie.
Intanto prima del lockdown la bottega era totalmente gestita da Michele, un ragazzo che grazie all’art. 21 O.P. – ossia la possibilità di svolgere attività lavorativa durante il giorno e tornare in carcere soltanto alla sera – è stato affidato a noi. È una bella soddisfazione, il coronamento dell’intero progetto.
Il carcere condanna – o almeno ci prova – all’immobilismo e impiegare il tempo in maniera produttiva non è sempre facile. Secondo la tua esperienza, avere un impiego o prendere parte a un progetto di utilità sociale può cambiare la percezione di sé?
Attualmente stiamo inserendo un nuovo detenuto all’interno della falegnameria e proprio lui mi parlava di quanto sia vitale non spendere intere giornate rinchiuso in una cella. Può sembrare una sciocchezza dall’esterno, ma impegnarsi in un’attività manuale vicina alle proprie capacità o anche soltanto poter stare insieme al di là di quelle mura ha un altro sapore.
Quando accolgo qualcuno per il suo primo giorno di lavoro quasi non parlo per permettergli di ambientarsi e capire dove si trova, il secondo giorno chiedo come va, il terzo spiego che la cosa importante non è tanto la produttività svelta quanto creare un ambiente sereno e star bene all’interno della falegnameria.
Fa sorridere guardarli mentre si arrabbiano perché pensano di poter fare meglio, di fronte alla verniciatura non proprio perfetta o a un pezzo troppo ruvido, in quel momento capisci che sono entrati nella filosofia del progetto e si sta iniziando a costruire qualcosa.
Prima di salutarti mi piacerebbe chiederti se c’è un messaggio che vorresti diffondere
Il carcere è un mondo che non conoscevamo, un microcosmo di storie diverse. Confrontarsi con persone che sanno di aver sbagliato e vogliono riscattarsi è un’esperienza interessante. Aiutarle in questo percorso, toccare con mano i loro miglioramenti è veramente qualcosa che dà soddisfazione.