Il 2 giugno 1946 il popolo italiano si reca alle urne per scegliere la forma istituzionale da dare al paese, decidendo tra monarchia e repubblica. La repubblica vince con 12.718.641 voti a favore contro i 10.718.502 voti ottenuti dalla monarchia.
Nello stesso giorno si tengono anche le elezioni per l’Assemblea Costituente, che avrebbe scritto la Carta fondamentale della Repubblica nata dall’esito del voto referendario.
L’Assemblea Costituente viene eletta “a suffragio universale con voto diretto, libero e segreto, attribuito a liste di candidati concorrenti”, come previsto dall’art. 1 della legge elettorale (Decreto legislativo luogotenenziale 10 marzo 1946 n. 74).
Il primo articolo stabilisce inoltre che la rappresentanza è proporzionale e che “l’esercizio del voto è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il Paese in un momento decisivo della vita nazionale”.
Alle elezioni partecipano anche le donne, cui il diritto di voto, attivo e passivo, era stato esteso nel febbraio del 1945, e che si erano già recate alle urne per le elezioni amministrative del 10 marzo 1946.
Le elezioni per l’Assemblea Costituente videro il successo dei tre grandi partiti di massa del tempo, la somma dei cui voti raggiunse circa il 75%. La Democrazia Cristiana ottenne la maggioranza relativa col 35% dei voti, seguita dal Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e dal Partito Comunista Italiano.
La “questione istituzionale”
Nei mesi successivi all’armistizio del settembre 1943, nell’Italia divisa in due dalla guerra e dall’occupazione tedesca, le forze politiche antifasciste, raccolte nel Comitato di Liberazione Nazionale (C.L.N.), si trovano ad affrontare la complessa questione dell’assetto istituzionale che il Paese dovrà assumere. Con il Congresso di Bari del 28 e 29 gennaio del 1944, e la disponibilità dichiarata dal PCI di Togliatti a collaborare in questa fase con il governo Badoglio e la monarchia (la cosiddetta “svolta di Salerno” del marzo 1944), i partiti, al fine di preservare l’unità nazionale e del fronte antifascista, concordano nel rinviare la scelta tra monarchia e repubblica a un referendum da tenersi dopo la fine della guerra.
Il 25 giugno del 1944 si tracciava il quadro normativo all’interno del quale si sarebbe dovuta gestire la transizione verso un nuovo assetto istituzionale dello Stato, con il decreto luogotenenziale n. 151, definito per questo “Costituzione provvisoria”. In particolare si stabiliva che “Dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà , a suffragio universale diretto e segreto, una Assemblea Costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato” (art. 1).
Per consentire l’attuazione di questo programma vennero istituiti la Consulta nazionale e il Ministero per la Costituente. Il primo era un organo consultivo “sui problemi generali e sui provvedimenti legislativi che le vengono sottoposti dal Governo”, il cui parere era obbligatorio in materia di bilancio, rendiconti consuntivi dello Stato, imposte e leggi elettorali; il secondo aveva il compito “di preparare la convocazione dell’Assemblea Costituente” e di “predisporre gli elementi per lo studio della nuova costituzione che dovrà determinare l’aspetto politico dello Stato e le linee direttive della sua azione economica e sociale”.
Quasi due anni dopo, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 98 del 16 marzo 1946, si apre quello che è considerato il secondo periodo costituzionale transitorio. Il decreto apporta integrazioni e modifiche al decreto-legge luogotenenziale n. 151 del 25 giugno 1944, stabilendo che contemporaneamente alle elezioni per l´Assemblea Costituente il popolo sarà “chiamato a decidere mediante referendum sulla forma istituzionale dello Stato (Repubblica o Monarchia)””. Si sancisce così definitivamente il diritto del popolo italiano a determinare la nuova forma istituzionale dello Stato.
Votanti: 24.946.878 (89,08%)
Repubblica: 12.718.641 (54,27%)
Monarchia: 10.718.502 (45,73%)
Schede valide: 23.437.143
Schede bianche: 1.146.729
Schede non valide (bianche incluse): 1.509.735
…e gli Italiani scelsero
Così venne il 2 giugno, e gli Italiani scelsero. Anche il Re votò già rassegnato alla sconfitta. La mattina stessa incaricò infatti il generale Infante di concordare con De Gasperi le modalità della partenza per l’esilio. Gli premeva inoltre sapere se – stando ai precedenti – fosse opportuno o no che si recasse a votare: uno dei più vecchi maggiordomi della Casa reale rammentò d’avere accompagnato al seggio elettorale – almeno un quarto di secolo prima – Vittorio Emanuele III, e il figlio si regolò allo stesso modo. Raggiunse, accompagnato da Infante, la sezione di via Lovanio, non lontana da Villa Savoia. Fu accolto con simpatia.
Non lo lasciarono in coda, in segno di rispetto, e si assicura che abbia deposto, sia per il referendum sia per la Costituente, scheda bianca. Poiché la gente lo applaudiva, il presidente di un seggio vicino si avvicinò ad ammonire che erano proibite le manifestazioni politiche.
Verso sera, nella sezione di largo Brazza votò Maria Josè, che era scortata da Manlio Lupinacci. Si vuole che, infilata una scheda bianca per il referendum, per la Costituente avesse invece scelto il socialismo, e dato la preferenza a Saragat. Ma dai documenti della Presidenza De Gasperi, raccolti dal suo capo di gabinetto Bartolotta, e citati da Antonio Gambino, risulterebbe che Umberto, quando il Presidente del Consiglio gli fece cenno delle voci sul voto di Maria Josè, telefonò alla moglie per sapere cosa ci fosse di vero. Maria Josè rispose che «le notizie pubblicate dai giornali sono inesatte». Tuttavia (è Nenni che lo annota il 4 giugno) «il bel Peppino [Saragat] che non sta nella pelle ha raccontato a Togliatti e a me di aver saputo da Lupinacci che la Regina ha votato per i socialisti, dando la preferenza a lui».
A Nenni che gli chiedeva, il 1 ° giugno, per chi avrebbe votato, De Gasperi aveva risposto: «Il voto è segreto. Ma sono pronto a scommettere con te che il mio Trentino nero darà più voti alla Repubblica della tua rossa Romagna>> (l’azzeccò). La figlia Maria Romana attestò poi che sia il padre, sia lei, avevano votato Repubblica.
Il Paese si mantenne, nella prova, calmo; la partecipazione alle urne fu alta, l’89 per cento.
Nella notte fra il 3 e il 4 giugno, quando i dati elettorali che affluivano al Viminale prendevano già consistenza, Romita temette che la Repubblica fosse stata sconfitta. «Intorno alle ventiquattro sembrava che ogni speranza fosse perduta. Mi chiusi nello studio per scorrere e riscorrere quei dati. No, non era possibile! Tornai a leggerli, prendendo appunti, facendo calcoli. No, non era possibile! Eppure le cifre erano lì, col loro linguaggio inequivocabile!»
Il Ministro dell’Interno esagera alquanto, per rendere la concitazione drammatica del momento, con i punti esclamativi. Ma era un ingegnere, non uno scrittore: e di numeri se n’intendeva. «Il guaio» citiamo ancora Romita «fu che anziché dal Nord i primi dati arrivarono dal Sud. Una vera beffa della sorte. A conoscenza di quanto accadeva, in quelle prime ore, fummo soltanto De Gasperi, Nenni e io».
[…]
Il Ministro dell’Interno Giuseppe Romita legge i risultati del referendum
Secondo la versione di Romita, che nella sostanza è stata confermata da testimonianze autorevoli e insospettabili, l’altalena dei risultati dipese unicamente dal modo in cui pervennero al centro. Non appena divenne massiccio il peso del Settentrione, la Repubblica passò in vantaggio, tanto che il computo finale le diede 12.182.000 voti contro i 10.362.000 della Monarchia. Un milione e mezzo, ma lo si seppe dopo, le schede bianche o nulle (che nella successiva contestazione tra il Re e il governo acquisteranno importanza decisiva). «Il milione di voti era arrivato» commentò Romita nelle sue memorie «ma non era uscito dal mio cassetto, sibbene da centinaia, da migliaia di urne».
Il referendum aveva tuttavia dimostrato, caso mai ce ne fosse bisogno, che esistevano due Italie, e che il periodo dopo 1’8 settembre 1943 – con il Regno del Sud e la Repubblica di Salò – aveva accentuato le loro dissimiglianze. In tutte le province a Nord di Roma, tranne due, aveva prevalso la Repubblica, in tutte quelle a Sud di Roma, tranne due, aveva prevalso la Monarchia. Le eccezioni furono Cuneo e Padova a Nord, Latina e Trapani a Sud. All’85 per cento che la Repubblica ebbe a Trento, al 77 per cento che ebbe in Emilia-Romagna, si contrapposero il 77 per cento che la Monarchia ebbe in province come Napoli e Messina (ma la sua punta massima fu a Lecce, 85 per cento).
Da “L’Italia della Repubblica. 2 giugno 1946 – 18 aprile 1948” di Indro Montanelli e Mario Cervi (2018, BUR Rizzoli).
Il giorno 2 giugno, data di fondazione della Repubblica, è dichiarato festa nazionale.
Art. 1 della legge 27 maggio 1949, n. 260, “Disposizioni in materia di ricorrenze festive”.