L’8 e il 9 marzo, mentre in Italia iniziava il lockdown per contenere l’epidemia di nuovo coronavirus, in circa 70 carceri da nord a sud si sono verificate proteste dei detenuti in seguito al divieto dei colloqui con i familiari per evitare i contagi. In quell’occasione sono morte tredici persone, nove delle quali solo nel carcere di Modena. La versione ufficiale è che quei decessi si siano verificati per overdose di metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie. Sebbene ci siano denunce di pestaggi durante le rivolte che devono essere ancora approfondite, sembra che almeno qualcuno dei detenuti sia effettivamente morto per overdose.
“L’abuso di farmaci in carcere è una realtà diffusa e molto pesante. A Modena potrebbe essersi scatenata una dinamica fatta di appetito per le sostanze da una parte, e dall’altra forse anche una forma di autolesionismo condito da una drammatica ripicca finale verso l’istituzione carceraria. Chiunque abbia lavorato in carcere sa quale sia la dimensione drammatica della ricerca di farmaci”, ha spiegato dopo la rivolta Salvatore Giancane, tossicologo e medico del Sert di Bologna.
Un recente monitoraggio dell’associazione Antigone, condotto su 60 istituti penitenziari in Italia, ha rilevato che il 27 percento dei detenuti è sottoposto a terapia psichiatrica. Questo significa che all’incirca uno su quattro assume psicofarmaci su prescrizione medica—e che quello della salute mentale nelle carceri è un argomento irrisolto e particolarmente preoccupante.
Che l’emergenza sia acuta lo conferma anche l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Basentini, che in una circolare di qualche mese fa parlava della necessità di “interventi urgenti in ordine all’acuirsi di problematiche in tema di sicurezza interna riconducibili al disagio psichico.”
Le conseguenze di queste forme di sofferenza, riassume La Stampa, sono pesanti e comprendono anche atti di autolesionismo, suicidi e aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria. Nel solo 2018 si sono tolti la vita 61 detenuti, mentre nel 2019 (almeno fino allo scorso 7 dicembre) l’hanno fatto 46 persone. Per dare un’idea, dietro le sbarre il tasso di suicidi si attesta al 10,4 percento; fuori, all’1,1.
Per capire com’è vissuta dai reclusi la questione dei farmaci e le conseguenze della loro diffusione ho parlato con Bruno* [il nome è di fantasia], che ha passato due anni in un carcere del centro Italia quando ne aveva già più di 50. “Io non ne ho mai presi,” precisa, “ma vedevo i miei compagni di detenzione farne uso.”
La sua esperienza in prigione, mi racconta, l’ha vissuta con distacco e uno stato d’animo che gli ha permesso di sopravvivere. Principalmente ricavando per se stesso degli “spazi di vita sana nonostante la totale incapacità della struttura a offrire qualsiasi cosa che possa aiutare una persona ad affrontare quello che le sta succedendo in maniera ricostruttiva, educativa. Tutto questo non esiste nel carcere. Esistono invece gli psicofarmaci, e sono uno strumento usato per ‘acquietare’ in qualche modo quelle sollecitazioni brutali e violente che quotidianamente si vivono lì dentro.”
All’interno dell’istituto la circolazione degli psicofarmaci seguiva un doppio binario: c’era l’infermiera che “passava tutti i giorni due volte al giorno e distribuiva gocce, pastiglie, in funzione delle indicazioni dello psicoterapeuta,” e poi c’era un “mercato nero” tra i detenuti stessi, che si facevano prescrivere e consegnare farmaci che poi non usavano e vendevano ad altri come per altre droghe.
Oltre alle diffusissime gocce per dormire, ad esempio, molti si procuravano una doppia dose dei farmaci prescritti o sostanze che li mettessero in condizione di tagliarsi o compiere atti di autolesionismo—che, secondo l’esperienza di Bruno, in carcere è uno dei pochi modi per ottenere qualcosa, perché fanno pressione sull’istituzione: “Ho conosciuto persone che praticavano il taglio periodicamente, ce n’erano alcuni che ne avevano centinaia, se li guardavi ti spaventavi.”
Bruno ricorda anche di detenuti che dormivano dalla mattina alla sera, e che quando si svegliavano “erano praticamente degli zombie. Poi capitavano degli episodi in cui qualcuno smetteva di prenderli per un periodo e impazziva letteralmente: passava dal dormire tutto il giorno al tirare lo sgabello in testa la compagno di cella e spaccargli la faccia.”
In seguito a questi episodi generalmente il detenuto in questione veniva condotto per diversi giorni in isolamento: “In qualche maniera gli si dava una bella lezione e poi veniva riportato in sezione come se niente fosse. Era solo un sistema di controllo che opera sull’emergenza.”
A un suo compagno di detenzione questa cosa succedeva spesso. “Prendeva farmaci, poi smetteva, stava male, diventava violento, veniva punito, messo in isolamento e poi tornava in cella e ricominciava a prendere i farmaci,” mi dice. “Una specie di circolo vizioso. Ma non era l’unico.”
Secondo un’indagine dell’Agenzia regionale della Sanità Toscana del 2015 che ha coinvolto 57 strutture detentive in cinque regioni, il 46 percento dei farmaci prescritti in carcere sono psicofarmaci. La quasi totalità di questi (il 95,2) agiscono sul sistema nervoso: molti sono ansiolitici, poi antipsicotici, antiepilettici, antidepressivi, ipnotici, sedativi.
Spesso sono più facili da ottenere rispetto ad altri tipi di medicinali. In un’inchiesta di qualche anno fa dell’Espresso, un ex detenuto che aveva girato cinque penitenziari del nord Italia aveva raccontato di soffrire di una forte forma di cefalea, ma che il farmaco specifico per curarla richiedeva una burocrazia lentissima e complicatissima in carcere: “Quasi mai riuscivo ad averlo. Mentre gli psicofarmaci erano sempre lì, pronti e disponibili.”
Le ragioni della massiccia presenza di psicofarmaci nelle carceri sono diverse. Da un lato, c’è il superamento (iniziato nel 2014) degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), come aveva già denunciato nel 2017 Gemma Brani, fondatrice della Società Italiana di Psichiatria Penitenziaria: “Da anni ci accorgiamo che mentre negli ospedali psichiatrici giudiziari diminuiscono gli internati, dall’altra aumentano in carcere. Un terzo di coloro che escono ce li ritroviamo in istituto penitenziario dopo qualche mese.”
Questo fenomeno di “reistituzionalizzazione” del disagio psichico ha accentuato la presenza della malattia mentale nelle carceri.
E qui veniamo all’altra ragione dell’abuso di psicofarmaci negli istituti di pena—ossia l’inadeguatezza dell’assistenza psichiatrica e psicologica, sia nei confronti di coloro che sono entrati in carcere già con un disagio psichico, sia di quelli che ne hanno sviluppato una qualche forma durante la detenzione.
Nel carcere dove era recluso Bruno per un periodo c’era una psicologa a disposizione, ma “aveva un numero di persone da seguire talmente elevato per cui la sua priorità era quella di verificare che la gente non stesse talmente male da tentare il suicidio. Quindi, se vedeva che una persona non stava così male la lasciava perdere, insomma, perché si dedicava a quelli che stavano peggio.”
Con gli psichiatri presenti nell’istituto Bruno ha parlato solo una volta, poco dopo il suo ingresso in carcere, ma ricorda che gli altri detenuti si lamentavano di non essere ascoltati. “Tendenzialmente non sono lì a parlare con te, ti ascoltano e poi cercano di darti il farmaco che ti può servire.”
Il monitoraggio di Antigone ha quantificato che in media ogni 100 detenuti sono previste 11 ore e mezza di presenza di psicologi e poco più di sette per quanto riguarda gli psichiatri. Ogni persona ha quindi a disposizione uno psicologo per circa sei minuti a settimana e uno psichiatra per meno di cinque minuti—il tempo di fare una prescrizione per un farmaco e firmarla.
Nel carcere di Spoleto, dove il 97 percento del totale della popolazione è sotto terapia psichiatrica (la percentuale più alta in Italia), la media di disponibilità degli psichiatri ogni 100 detenuti ogni settimana è di due ore e 21 minuti. Se davvero tutti e 100 ne usufruissero, non sarebbe sufficiente nemmeno a prendere carta e penna dal cassetto.
er Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Antigone, questi numeri segnalano un problema oggettivo. “L’effettività della presenza di personale dedicato alla salute mentale certamente non corrisponde alle esigenze,” mi spiega. “Questo produce l’uso massiccio dei farmaci: nel momento in cui come istituto non hai tempo e risorse per terapie sociali o psicoterapia, la pillola diventa la soluzione, con una funzione neutralizzante della popolazione penitenziaria. È molto più facile fare una prescrizione che mettersi a costruire un percorso di psicoterapia.”
Bruno, nella nostra conversazione, ha aggiunto che nella sua percezione i farmaci venivano prescritti per tenere buone le persone “che davano fastidio” e renderle innocue.
Le carenze dipendono anche dai servizi territoriali. Dalla riforma del 2008, infatti, l’individuazione di personale specializzato in cura e riabilitazione del disagio psichico—medici, psicologi, psicoterapeuti ed educatori specializzati—non spetta all’amministrazione penitenziaria ma alle regioni e alle Asl competenti, passando dal ministero della Giustizia a quello della Salute.
“C’è stata una parificazione tra persone detenute e persone libere nella tutela della salute, che è un principio sacrosanto,” continua Miravalle, il quale però nota che da quel momento invece di un miglioramento generale della sanità penitenziaria “abbiamo assistito a una differenziazione tra regioni dove la sanità funziona molto bene, e regioni dove c’è stato una sorta di abbandono dei servizi sanitari in carcere.”
Secondo l’esperienza di Bruno, la terapia e la psicoterapia—anche di gruppo con attività come il teatro—in carcere è fondamentale perché “le persone lì dentro hanno bisogno di uscire da una condizione di malessere esistenziale gigantesca.”
In un approfondimento realizzato assieme al Segretariato Italiano Studenti di Medicina (Sism), Maddalena Di Lillo di Antigone ha rilevato che all’interno del carcere la salute mentale è più vulnerabile del resto della società. Sia perché ci sono elementi che favoriscono l’emergere di patologie psichiatriche nelle persone (le cosiddette “sindromi penitenziarie”); sia perché alcuni soggetti magari entrano lì dentro in condizioni psicofisiche già precarie che poi esplodono durante la detenzione, dal momento che “tra marginalità sociale e patologie psichiatriche vi è un nesso che in carcere si rafforza ulteriormente.”
È un concetto che con parole diverse mi conferma anche Bruno. “Il carcere esaspera, alimenta, sviluppa pesantemente le tue zone d’ombra,” conclude. “Non a caso le persone poi in larga parte tornano in carcere in Italia. Anche il malessere psichico si sviluppa in un terreno fertile.”
fonte: vice.com
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