Chiusi dentro” è un viaggio nel sistema carcerario italiano. Questo podcast in otto puntate parte dal pensiero di Voltaire secondo il quale “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Dopo oltre un anno di lavoro, una quarantina di interviste e i gravi fatti accaduti (come le rivolte di marzo 2020 e la tragedia di Santa Maria Capua Vetere) possiamo dire di aver capito qualcosa. Proviamo a riassumere.
Le leggi e le pene – Come spesso accade, la Costituzione (art. 27) e le norme sull’ordinamento penitenziario (legge 354 del 1975 e successive modifiche, la legge Gozzini del 1986 e i vari regolamenti) descrivono un Paese avanzato e consapevole. La recente decisione della Consulta sull’ergastolo ostativo ne è una prova. In sintesi, le pene non possono consistere solo nella prigione e devono servire al reinserimento delle persone nella società; in carcere, non possono e non devono esserci afflizioni ulteriori rispetto alla privazione della libertà; la certezza della pena è definita dal codice penale (tot anni per ciascun reato, ma non necessariamente tutti in carcere) ma da lì in poi il comportamento del detenuto, il suo lavoro su se stesso e l’osservazione delle equipe trattamentali, devono servire a ottenere degli sconti che lo riavvicinino alla libertà. Come ci ha detto Cosima Buccoliero, già direttrice del carcere “modello” di Bollate: “Se un detenuto esce di prigione nel giorno esatto del suo ‘fine pena’, per noi è un fallimento”. Quindi, la normalità dovrebbe essere che si esce di prigione prima del “fine pena” perché la pena si può scontare anche altrove, ovviamente in base ai premi e agli sconti ottenuti grazie alla propria buona condotta e alla volontà di diventare persone migliori.
Vendetta sociale? – Ma fuori non tutti la pensano così. Davanti ai reati gravi, ma anche davanti al “fastidio” che ci causano la diversità e il disordine, vorremmo che chi li causa fosse chiuso lontano da noi. La società, insomma, alla prova dei fatti, tende ad avere un atteggiamento “vendicativo” nei confronti di chi ha sbagliato che si traduce nel “buttare via la chiave” che molti, tranquillamente, utilizzano nei loro commenti social. Insomma, il carcerato è “chiuso dentro”, ma anche i nostri cuori e le nostre menti sono “chiusi dentro” nei suoi confronti. Ne consegue un problema che la politica, negli ultimi decenni, non ha saputo (o voluto) risolvere: le norme (spesso approvate su onde emotive dovute a qualche grave fatto di cronaca) hanno teso ad aggravare le pene, col risultato che molti finiscono in prigione per reati molto piccoli, le carceri si riempiono e, quando esplodono, la soluzione è quasi sempre stata amnistia o indulto.
La normativa sulle sostanze stupefacenti, ad esempio, ha fatto sì che oltre il 30 per cento dei circa 55 mila detenuti sia dentro per reati legati alla droga (di cui neanche un terzo per questioni gravi) e che oltre il 15 per cento delle persone carcerate siano tossicodipendenti. Nello stesso tempo, per fortuna, è aumentato l’utilizzo delle misure alternative (affido, messa alla prova ecc.) che sembrano funzionare. Ma è chiaro che una legislazione diversa sul tema delle droghe risolverebbe quasi tutti i problemi più seri del nostro sistema carcerario che, invece, sembra sempre essere sul punto di esplodere.
Discarica sociale – Tutti quelli con cui abbiamo parlato ci hanno spiegato che la “composizione” sociale del mondo del carcere è profondamente cambiata. Oggi chi finisce in prigione proviene (nella grande maggioranza dei casi) dalle aree più degradate e marginali delle nostre città o è extracomunitario e proviene da paesi poveri. E la vita dentro ne risente. I criminali di un tempo, paradossalmente, erano più “adatti” al carcere: sapevano di doversi adeguare, rispettare le regole e cercare di uscire il prima possibile grazie a un buon comportamento. I carcerati di oggi sono più poveri, privi di cultura e hanno spesso un concetto “asociale” di sé. Per questo sono molto poco adatti alla vita in prigione. Sono malati e, spesso, dipendenti da droghe. Diversi di loro non hanno un domicilio fuori ed è difficile mandarli agli arresti domiciliari anche quando un magistrato di sorveglianza si rende conto che sarebbe meglio. Insomma, a molti il carcere non serve e per la collettività sarebbe molto più utile trovare misure alternative, aiutarli e curarli. Il carcere di oggi, dunque, è ormai una “discarica sociale” che serve solo ad allontanare dal corpo della società chi non riesce a stare al passo e a rassicurarci nella nostra paura di chi è diverso.
Oltre le mura dei nostri istituti di pena, però, il tasso di suicidi è altissimo: nel 2020, 61 detenuti si sono tolti la vita: uno ogni 863 reclusi. Nella società “libera” i suicidi sono uno ogni 17 mila cittadini: dieci volte di meno. E questo senza contare i tentati suicidi in prigione che (tra veri e falsi) sono migliaia.
Le strutture – La maggior parte dei circa duecento istituti di pena italiani, è inadatta a un trattamento penale moderno. Molti sono inseriti in antichi edifici (fortezze, castelli), mentre quelli più nuovi risalgono agli anni del terrorismo e dello scontro con la mafia e rispondono alle esigenze di massima sicurezza più che a quelle del recupero dei detenuti. Per lo più si trovano ai margini delle città. Dentro, spesso, l’affollamento è ancora insopportabile anche se la sentenza Torreggiani (Corte europea di Strasburgo, gennaio 2013) ha cambiato le cose. Prima, in una cella di 20 metri quadrati vivevano anche 8/9 detenuti. Adesso, la regola dice che ogni detenuto ha diritto ad almeno 4 metri quadrati di spazio. Al di sotto c’è il “trattamento inumano” e lo Stato deve risarcire quantomeno sotto forma di sconti di pena. Ancora adesso, in molti casi, il “trattamento inumano” è evitato perpochi centimetri. Ma è l’idea stessa di permanenza in carcere che è cambiata: una volta, un detenuto stava in cella anche venti ore al giorno. Oggi, tra attività esterne, studio, sport e “aria”, dovrebbe starci solo per dormire. Infatti la cella si chiama “camera di pernottamento”. E dal 2014 c’è la “sorveglianza dinamica”: i detenuti devono poter passare la giornata negli spazi comuni e muoversi liberamente senza “scorta”.
Ci sono carceri come Bollate dove il detenuto è sempre libero di andare e venire e gli agenti si limitano a controllare a distanza, ma ce ne sono ancora altri dove la “sorveglianza dinamica” funziona solo per gruppi di celle o in sezione e per ogni altro spostamento ci vuole un agente che accompagna. Perché tanta differenza tra carcere e carcere? Perché il “sistema Bollate” stenta a diffondersi? Ce lo siamo chiesti e lo abbiamo chiesto un po’ a tutti i nostri interlocutori. Le risposte variano: per organizzare un carcere moderno ci vuole la volontà di farlo, personale disponibile e dirigenti disposti a prendersi responsabilità e serve anche che la comunità civile intorno al carcere sia presente, intervenga, porti idee, smuova le cose, imponga il cambiamento. Non sempre questi fattori sono tutti presenti. E si torna alle antiche abitudini.
Scuola, lavoro, cultura – E comunque, rispetto a vent’anni fa, la gestione della pena è molto cambiata. L’amministrazione carceraria si sforza di puntare su forme “trattamentali” che aiutino il detenuto nel suo percorso riabilitativo. La scuola è ormai una presenza importante in ogni istituto di pena e molti detenuti riescono a frequentarla con successo anche a livello universitario. Il lavoro funziona e funzionerebbe anche meglio se ce ne fosse a sufficienza per i detenuti. Oggi meno di ventimila detenuti su 53 mila sono occupati. La maggior parte delle occasioni lavorative (circa 15 mila) sono quelle che arrivano direttamente dall’amministrazione penitenziaria (cucina, manutenzione, biblioteca ecc.). Ma non bastano e ancora troppo poche (qualche migliaia) sono le occasioni di lavoro che arrivano dall’esterno. Perché non è facile organizzarle, perché le strutture sono inadatte, perché gli incentivi alle aziende non sono sufficienti. E, da fuori, non sempre la società civile aiuta: ci sono esempi meravigliosi di volontariato, ci sono gruppi teatrali e musicali, giornali e trasmissioni radiofoniche che nascono da un fantastico “mix” di interno ed esterno, ma la situazione oggettiva è che l’amministrazione carceraria riesce a offrire occasioni di lavoro solo a poco più di un terzo dei detenuti. Il che ha conseguenze anche sul “dopo”.
L’italiano medio ritiene che i detenuti facciano una vita più che decente a nostro carico e, spesso, si arrabbia per questo. In realtà, ciascun carcerato deve rimborsare allo Stato circa 110 euro al mese per il suo “mantenimento”. Questa cifra viene trattenuta dallo stipendio di quelli che lavorano. Per gli altri, si accumula e, quando un detenuto torna in libertà, spesso deve allo Stato alcune migliaia di euro che gli verranno trattenute dall’eventuale stipendio che percepirà se troverà un lavoro. Anche per questo, molti ex detenuti preferiscono essere pagati in nero quando hanno un’occupazione.
Le rivolte. In questo quadro, l’8 marzo del 2020, in piena pandemia da Covid, sono esplose le peggiori rivolte della recente storia del sistema penitenziario italiano. Hanno riguardato una trentina di istituti (circa il 15%) e hanno avuto un bilancio tragico: 13 detenuti morti, decine di feriti anche tra gli agenti di polizia penitenziaria, danni per milioni. Nessuno se le aspettava, ma riflettendo, è possibile arrivare a delle spiegazioni. Tutto ha origine nella cattiva comunicazione del blocco delle visite in funzione anti-Covid. Dove (come a Bollate o anche a Rebibbia) la comunicazione è chiara e coinvolgente, non accade nulla o quasi nulla. In altre situazioni, è il disastro. Delle tredici vittime, per otto è quasi accertata la causa di overdose ma ci si chiede come mai in carcere, basta entrare in infermeria e rompere un armadietto per procurarsi quantità enormi di sostanze stupefacenti.
Alle rivolte, come è quasi prassi, si risponde con la violenza. Nessuno nega che in certe situazioni (e nell’immediato) una dose di violenza sia inevitabile o, forse, anche necessaria. Ma qui accadono cose inspiegabili e inaudite. Diversi detenuti sono morti durante o subito dopo il trasferimento dopo che le rivolte erano state domate. Alcuni sono deceduti addirittura qualche giorno dopo. Per tutti questi casi, il Garante delle persone private della libertà si oppone all’archiviazione e chiede ulteriori accertamenti. C’è da verificare se alcuni sono stati picchiati durante le perquisizioni delle celle (se fossero state fatte subito e bene, avrebbero forse evitato anche le morti per overdose) e c’è da chiedersi come mai i sanitari intervenuti abbiano dato il nulla osta al trasferimento di persone che sono arrivate a destinazione praticamente moribonde. Al Dap ci hanno detto che, in effetti, nella concitazione del momento i nulla osta ai trasferimenti sono stati dati a voce e che, solo il giorno dopo, sono stati compilati dei referti. Insomma, il sistema penitenziario (o, almeno, una parte di esso) non ha retto alla tensione dovuta alla pandemia, ha dimostrato limiti nella comunicazione, gravi disattenzioni e mano inutilmente pesante nella repressione immediata e tendenze pericolosamente vendicative nei giorni successivi.
Santa Maria Capua Vetere – Ma il peggio doveva ancora venire perché un mese dopo, il 5 aprile, nel carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, di fronte a una blanda protesta sempre legata al Covid, è scattata (sotto forma di perquisizione nella sezione “Nilo”) una durissima repressione fatta di violentissimi pestaggi e umiliazioni di ogni genere. I diritti umani più elementari sono stati sospesi per alcune ore mentre un centinaio di agenti si dedicavano alla “riconquista del territorio” con livelli di violenza mai visti, con minacce di morte e urlando frasi purtroppo dense di significato: “Non ne uscirete vivi!!! Adesso lo Stato siamo noi!!!”. Ma quello che è più grave è chegrave che sembra che tutto fosse stato avallato e addirittura organizzato dal Dap della Campania e dal Provveditore Antonio Fullone che, qualche settimana prima aveva organizzato una “squadra” di agenti presi da diversi istituti proprio per organizzare imprese come questa. Ed è persino più grave il fatto che nelle ore precedenti e immediatamente successive al pestaggio, il comandante degli agenti, Gaetano Manganelli abbia risposto alle domande del magistrato di sorveglianza Marco Puglia dicendo che si era trattato di una normale perquisizione post protesta e che erano state trovate “droga e armi bianche”. Ma Puglia non se n’è stato e, spinto anche dalle diverse segnalazioni che arrivavano da parenti dei detenuti, si è recato immediatamente in carcere raccogliendo dai detenuti della sezione “Nilo” importanti testimonianze sui fatti e immagini dei segni delle percosse. Poi, il magistrato ha fatto la cosa più importante mandando i carabinieri a sequestrare le riprese delle telecamere di sorveglianza dei reparti prima che venissero cancellate. Quelle immagini hanno mostrato il macello di Santa Maria Capua Vetere, sono finite su tutti i siti di informazione e hanno costruito solidissime basi per l’ordinanza che ha mandato a giudizio oltre cento persone con 52 “misure cautelari”. Quanto la decisione di Puglia sia stata importante in questa vicenda lo dimostrano i fatti del carcere di Melfi del 9 marzo 2020 dove (come racconta l’avvocata Simona Filippi di Antigone) la mancanza di immagini ha praticamente affossato l’indagine che riguardava fatti non molto dissimili da quelli di Santa Maria Capua Vetere.
La vicenda del “Francesco Uccella” ha sconvolto l’intero sistema e ha portato tutti a riflettere su come certe cose siano potute accadere. Dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia a Mauro Palma molti hanno parlato di un problema prima di tutto “culturale” e di formazione del corpo degli agenti penitenziari. Evidentemente, nonostante leggi e regolamenti degni di un Paese civile, il sistema penitenziario (almeno in alcune delle sue parti) è ancora permeato da quella logica della pena come “vendetta sociale” che porta facilmente agli eccessi di Santa Maria Capua Vetere. Ma, se era purtroppo evidente (anche da altri segnali) che il problema esisteva nel corpo degli agenti penitenziari, più difficile era immaginare che un Provveditorato importante come quello campano avrebbe potuto avvallare e addirittura organizzare un disastro di queste proporzioni.
Il nostro viaggio nel sistema penitenziario italiano, finisce temporalmente con Santa Maria Capua Vetere. E non è una bella conclusione. Ma lungo la strada abbiamo incontrato, comunque, un mondo in movimento, con tante persone di buona volontà che hanno capito e cercano di mettere in pratica il senso dell’art 27 della Costituzione. Abbiamo sentito un ex ergastolano come Carmelo Musumeci spiegarci che l’unico modo di far nascere il pentimento nel cuore di una persona, è trattarla bene: “Se mi tratti male, io mi sento vittima del sistema e finisco per pensare di aver avuto ragione a fare il criminale. Se mi abbracci io comincio a sentirmi in colpa per i crimini che ho commesso”. E’ un carcere possibile quello che “abbraccia” i detenuti? Per quello che abbiamo capito, sì. E, in giro per il Paese, ci sono esempi (come a Bollate) che si avvicinano al concetto. Ma per un carcere così occorre che anche fuori, nella società, molte cose cambino, che le comunità “abbraccino” le loro carceri e che qualcosa si apra dentro ciascuno di noi.
Fonte: lastampa.it